Il mio filo rosso
Può essere utile uno sguardo rapido sul mio iter filosofico-teologico per cogliere meglio la vastità degli elementi in campo, sparsi nei miei libri (Per i rimandi ai testi presenti nel sito a supporto di quanto qui dico rimando alla pagina “Il mio sito”).
Nel 1959, non ancora sacerdote, già laureato in Diritto Canonico, mentre completavo gli studi teologici di stampo neotomista, la scelta di laurearmi in Scienze della comunicazione con taglio giornalistico mi mise a contatto con la storia degli uomini, desideroso di coglierne le correnti di fondo e di capire perché pur essendo la storia definita come magistra vitae, di fatto solo raramente favoriva sviluppi migliori. Mi convinsi che occorreva una filosofia della storia e chiesi consiglio ad un professore di squisita preparazione filosofica, Jesus Arellano, che veniva a volte da Siviglia a Pamplona, e lui mi consigliò di leggere La città di Dio. Sant’Agostino mi ha sempre affascinato, ma il suo poderoso libro non rispondeva alle mie attese, si trattava chiaramente di teologia della storia. E andai capendo che anche Hegel e Marx facevano una teologia della storia secolarizzata, con messianesimo immanente. San Tommaso mi dava molti elementi, ma la filosofia della storia non rientrava nei suoi immensi studi. Solo Maritain mi diede l’assicurazione che stavo nel giusto a cercare in quella direzione. Capivo che la filosofia essenzialista, tutta la tradizione metafisica occidentale, non poteva reggere una reale filosofia della storia, soprattutto nel suo dover diventare sana ideologia, sana impostazione dell’agire politico e sociale. E capii anche che il fideismo non risolve la filosofia della storia, semmai la confonde con la storia della salvezza. E incominciai a vedere che di fideismo c’erano varie specie, più dichiarato o più soffuso, moderato, apparentemente rispettoso della ragione e, a parole, anche aperto alla metafisica.
Nel frattempo un disagio interiore mi convinse che conoscevo ben poco il Vangelo e tutta la Scrittura, ma anche conoscevo poco l’uomo e le sue profondità psicologiche. Ormai sacerdote mi lanciai a studiare teologia biblica e molti libri di psicologia, col consiglio di don Giambattita Torellò, sacerdote psichiatra, che mi ha dato molto. E ne emersi con un scoperta che nel tempo si è rivelata assolutamente decisiva: che il cuore è mosso sempre da un grande bisogno di amore, di essere riconosciuto da altri in un vincolo vitale che sostanzia il cuore della religione, anche tra atei o miscredenti. Capii allora il genio di sant’Agostino e la forza di quelle sue parole: “amor meus pondus meum, eo feror quocumque feror”, abbracciando per sempre l’agostinianesimo. Indagavo sempre più profondamente sul problema dell’amore, non solo come serie di virtù personali verso gli altri, ma come “noi”, che dà senso alla vita oltre ogni limite storico. Scoprivo che tutti sono pronti a dare la vita per la loro causa, anche se perversa: si muore per Hitler, per Stalin, per Ben Laden, o ci si droga con gli amici del sabato sera per non essere emarginati. Anche il tema dell’“amore per sempre”, che mi ha tenuto occupato lungo molto tempo, a sostegno di fidanzamenti e famiglie sempre più precarie, si può fondare solo sul “noi” di una appartenenza primaria che abbia tra le verità portanti quella del matrimonio indissolubile. Solo la lealtà verso la “tribù” in cui ciascuno si muove può reggere un impegno che non dipende solo dalla libertà individuale. L’esempio delle realtà cattoliche carismatiche, fiorite nel secolo XX, dice chiaramente che una rete di famiglie impostate su di un cammino di santità oggi può garantire famiglie fedeli e feconde.
La lunga consuetudine di vita e di dibattito con Pierpaolo Donati hanno rafforzato il grande tema della relazionalità che si apre oltre la modernità razionalista. Anni di studio e di direzione spirituale, a contatto con migliaia di persone hanno permesso il libro Liberare l’Amore. La comune idolatria, l’angoscia in agguato, la salvezza cristiana, che ha illuminato numerosi lettori attenti. Quel libro è una lunga spiegazione, del tutto originale, dei “tre convincimenti dello Spirito Santo”, stranamente sempre trascurati dall’’approfondimento teologico. Eppure Gesù dice che senza Spirito Santo non possiamo capire il Vangelo e di ciò che lo Spirito deve convincerci lo dice proprio in Gv 16, 8, specificando tre parole assolutamente necessarie per penetrare il Vangelo: peccato, giustizia, giudizio. Profondità abissale del peccato al singolare, da scoprirsi in controluce con la grande scoperta della “giustizia” e del “giudizio” nel cuore del bisogno assoluto di amore; nuova giustizia con nuova creazione a fondamento del Regno: il mondo nuovo creato a Pentecoste. E infine, col “giudizio”, scoprire il primato del comandamento nuovo. Lutero aveva capito molto dei primi due convincimenti, ma non aveva colto il terzo, e i tre convincimenti procedono sempre insieme. Ma capivo anche i limiti della risposta cattolica del Concilio di Trento che accentuava gli aspetti istituzionali e morali a scapito dell’azione del tutto gratuita dello Spirito Santo per salvare e santificare il fedele, con la collaborazione della nostra libertà, ma non certo dei nostri meriti.
Il peccato originale prendeva contorni ben più definiti, pur rimanendo occulto nel suo scaturire nei progenitori. Ci sono varie teorie sulla sostanza del peccato originale. Per me diventava sempre più chiaro che si tratta di un bisogno assoluto di amore, legato alla nostra natura, anche genomica, che cerca la sua fonte non in Dio ma nelle “persone essenziali” che formano la nostra appartenenza sociale e religiosa primaria. Si baratta l’immagine divina con l’immagine davanti agli altri, per la quale tutti sono pronti a qualunque sacrificio, fino alla morte.
Alla luce dei tre convincimenti mi si è chiarito “il male più grande”, che può albergare solo nel seno della Chiesa, quando si offusca il dono infinito di amore misericordioso che può salvare il mondo da tutti i suoi mali e abbattere tutti i muri di divisione tra le chiusure settarie operate dal peccato originale nel cuore di ogni appartenenza primaria. Se la Chiesa come istituzione cura la religione lasciando la fede viva, il Vangelo salvifico, nei conventi, si provoca il male più grande del mondo. Quando si confonde la misericordia con le opere di misericordia si finisce per annullare l’’immensità del dono della misericordia divina, facendo entrare il giudizio del demonio sulle nostre opere, con uno strascico di lotte di potere, di confronti impietosi, di scoraggiamento per i nostri limiti, di presunzione nel successo, di maldicenza, ecc. E questo anche nelle persone che si votano a servire il Vangelo, che sono già ben poche. Se si dà più importanza alle nostre miserie che alla misericordia divina il Vangelo viene annullato!
Ma, con i problemi di amore andavo capendo che la filosofia della storia deve far luce anche sul problema del senso della vita in un gruppo primario sociale, dall’anima religiosa, da non lasciare solo alla fede o alle credenze degli uomini. E capii perché la storia non è poi una buona maestra di vita, perché ognuno ragiona a partire dal suo gruppo primario per garantirsi immagine e potere, e non, come crede, dalla ricerca della verità. La storia delle culture e dei popoli non progredisce uniformemente, e neppure si muove in ripetizioni con ritorni periodici in una circonferenza, ma è piuttosto un arabesco di forme spesso imprevedibili, con costanti dovute alla natura umana, ma con dinamismi interni di ogni gruppo primario, che impediscono di creare schemi universali se non quello che tutto si muove nel bisogno di consenso in appartenenze primarie.
Si aprivano grossi problemi metafisici. Con la filosofia scolastica che avevo studiato non si poteva sostenere una filosofia della storia. Maritain è stato grande in questo senso, ma aveva un limite che doveva essere superato: metteva il motore della storia nella morale, mentre per me era sempre più chiaro che è il dinamismo imperioso del fine ultimo naturale, cuore della sapienza e della religiosità, con l’immenso bisogno di amore che muove tutti i cuori e li unisce nelle più disparate tribù o sette, o religioni, o gruppi ideologi, fino al political correct che cela proprio il bisogno di consenso in una rete sociale significativa. Ma la metafisica tradizionale non poteva fare luce sul radicale problema di amore. La grande scoperta fu quella dell’atto di essere, seguendo gli studi di Cornelio Fabro. Capii che non bastava la metafisica dell’’essere che avevo assimilato nei miei studi istituzionali. Non basta il tertium non datur, di Parmenide, tra essere e non essere, perché legato solo all’esistenza. Si penetra oltre l’esistenza, nella sua causa. Con la metafisica dell’atto di essere si supera il razionalismo e le sue secche formalistiche. Con la metafisica dell’atto di essere capivo che si può fondare la filosofia della storia e potei avviarmi nel gioco estremo di come relazionare grazia e natura, tra le ombre e gli inganni sparsi in profondità dal peccato, radicato nel bisogno di consenso nella propria “tribù” esistenziale. Si giunge necessariamente al tema del fine ultimo, che è senz’altro, nel cuore di Dio Padre, quello soprannaturale, ed è necessariamente unico. Però è anche necessario e questo crea un acuto problema per la grazia che non è necessaria come lo è la natura, altrimenti si identificherebbero; oppure la natura si ridurrebbe ad una pura potenzialità il cui atto sarebbe la grazia. Comunque si verrebbe a identificare la grazia, il soprannaturale, con il naturale e questo verrebbe vanificato, perché il fine ultimo è ciò che di più connaturato è per ogni ente.
Con la filosofia della storia ho potuto studiare in modo nuovo la festa. Concretizzazione del trascendente come cuore della storia, dove i doni divini celebrati diventano proprio il cuore dell’’agire umano, del lavoro, della libertà. La festa porta al primato della carità rispetto a tutte le opere, anche quelle di misericordia. La festa non si gioca sull’agire, sul realizzare, ma sul celebrare i doni che uniscono in comunione profonda. Incominciavo a capire che la fonte più perniciosa di male nel mondo non è dovuta a terroristi o relativisti, ma a chi ci tiene ad essere un buon cattolico e non sa distinguere la carità dalle opere di carità. Visto che non c’è carità senza opere è facile equivocare e pensare che se ci sono le opere c’è anche la carità, ma, come studio nel libro Saper di Amore, nella confusione prevale il giudizio sulle opere, vera arma del demonio per separare, per introdurre paragoni e lotte di potere, invidie e scoraggiamenti di fronte ai nostri limiti, ecc. Solo cattolici impegnati possono corrompere il Vangelo (ecco il più grande male!) e ciò avviene nella confusione di carità e opere di carità.
Capivo pure un limite di Cornelio Fabro, che non accettava la relazione trascendentale. E approdai al trascendentale della donalità. Lo inseguivo da tempo con altro nome; poi presi il nome da Leonardo Polo, ma non il contenuto, perché lui lo riferiva ad un trascendentale dello spirito umano, della conoscenza, e non all’essere. L’essere cerca l’essere e attira l’essere, ponendo la relazionalità nella scaturigine stessa dell’’essere. Certamente in questo aiuta la luce che promana dalla Rivelazione della Trinità, ma diventa un portato filosofico di assoluta necessità. Negli enti spirituali il trascendentale della donalità diventa amore e precede ogni pensiero. In questo senso l’amore diventa trascendentale ad ogni conoscenza e ad ogni agire umano. La voluntas ut natura, che anela al fine ultimo, precede e condiziona la mente e naturalmente la voluntas ut ratio, esercitata nella nostra libertà ridotta. Il continuo approfondimento fenomenologico del consenso in un gruppo primario trovava una forte conferma metafisica, venendo ad assumere un posto principale anche nella filosofia della storia. L’atto di essere relazionale attualizza gli enti e la relazione trascendentale che unifica il creato. La persona può ora essere definita come identità unica e libera, ma in comunione, secondo gli studi di san Giovanni Paolo II, ma con un fondamento metafisico più forte. Materie come psicologia, sociologia, filosofia, si possono ora relazionare. Nell’atto di essere relazionale cambia tutto e si fonda in modo trascendentale l’amore!
Nel frattempo si andò affermando la Nouvelle theologie, nei due versanti: antropologistico e fideistico moderato. L’apporto teologico è stato fantastico, con un rilancio del tutto indispensabile della Parola, a fondamento della fede cristiana. Col Concilio fu spazzata via la polemica sul rapporto tra grazia e natura; ma la soluzione cristocentrica adottata, pur con varie sfumature, non permetteva più una filosofia della storia. Perfettamente concorde sul cristocentrismo forte, ritengo però che si debba distinguere tra il Gesù di Nazaret, vero uomo, dal Gesù risorto: uomo nuovo. Temi di amore, di senso, di comunione, erano ormai sostanziati solo in modo teologale.
Dopo i problemi procurati dall’antropocentrismo fideistico (la fede deve servire per risolvere i problemi storici: teologia della liberazione, teologia politica, ecc.) in campo cattolico si è affermata la corrente più fideistica capeggiata da De Lubac. Ora il paradigma neoagostiniano di De Lubac domina incontrastato. Non potendo certo tornare indietro, quando la metafisica razionalista, somma in Suarez, separava due fini ultimi per l’uomo, uno naturale e uno soprannaturale, non potevo però accettare il portato fideistico, per quanto moderato e aperto a riconoscere un compito della ragione e della metafisica, in cui la natura diventa una potenzialità il cui atto, o perfezione, è posto solo nella grazia o nella fede. Occorreva ritrovare il fine ultimo naturale, che è penultimo rispetto al fine ultimo soprannaturale, che visto dalla parte di Dio è il vero e unico fine ultimo, ma non è penultimo di per sé. Che ciò non sia un puro artificio retorico lo si può vedere con l’esempio della contadina medievale che viene sposata dal principe e diventa regina. Se si toglie il fine ultimo naturale è come pensare che lo sposarsi sia il fine soprannaturale della donna, perché realmente è il fine ultimo della sua femminilità. Invece la donna ha una sua finalità ultima, ma nel disegno del principe viene elevata ad una dignità non corrispondente alla sua natura, ma certamente nella direzione del desiderio di felicità che il fine ultimo alberga e che Dio può far proprio ad un livello nuovo, con nuova creazione. Il disegno di Dio comprende creazione e redenzione, in unità ben articolata, dove la natura umana, creata ad immagine divina, non è abbassata al rango di pura potenzialità rispetto al piano soprannaturale di Dio. Ho dovuto ripercorre i mille meandri del tema grazia-natura, con uno studio particolare per il desiderio naturale di vedere Dio, su cui si erano spesi fiumi di parole. Intanto il nuovo paradigma teologico, di stampo agostiniano, aveva spazzato via ogni resto dell’umanesimo integrale di Maritain, indebolendo sempre più l’azione dei cristiani nella vita pubblica, nella cultura, nella scuola, nello spettacolo, ecc. Abbiamo lasciato corrompere profondamente ed estesamente la famiglia. Oggi su famiglia e bioetica qualcosa si fa ma ormai i buoi sono scappati dal nostro recinto primario. La vera sfida culturale è sulle appartenenze primarie e non stiamo facendo nulla. Di fatto si trovano contributi culturali di molti cattolici, sacerdoti in prevalenza, ma anche tanti laici, ma manca uno statuto della ragione tale da coinvolgere nello stesso dibattito credenti e non credenti. Nel libro L’appartenenza primaria. Una teoria generale studio anche l’immensa portata della comunione primaria per la vita di fede, per rispettare le appartenenze altrui e per la nuova evangelizzazione (1).
In dialogo con il Prof. Pierpaolo Donati andavo capendo il problema di una riflessività sufficiente per entrare in un nuovo paradigma e ancor più per approfondire lungo tutta la vita i paradigmi esistenziali. È facile pensare che l’uomo è un animale sociale e che tanti comportamenti dipendono dal contesto sociale, ma pochissimi hanno un grado di riflessività capace di prendere coscienza di un consenso radicale in una appartenenza primaria e il suo condizionamento sulla ragione e sul comportamento, presente in tutti gli uomini, senza possibilità di eccezione. Nessuno ragiona solo con la propria mente. Tutti i cattolici sanno cosa vuol dire comunione nella Chiesa, ma pochi si rendono conto che nella Chiesa ci sono modi diversi di appartenere. In genere, per secoli, ai laici è stato offerto solo una appartenenza socio-sacrale, lasciando l’appartenenza carismatica, di Pentecoste, ai religiosi. Ora le realtà carismatiche laicali sorte nel secolo XX sono di fatto un cammino di santità, caratterizzato dal comandamento nuovo di Cristo. Nella Chiesa istituzionale in genere manca la riflessività sia sulla necessità di una cammino di santità per dirsi realmente cristiani nella bellezza del Vangelo, sia sul modo di favorire una scelta primaria in chi volesse vivere secondo il Vangelo. Manca poi una riflessività sufficiente per portare avanti un cammino di santità senza grave rischio di soffocare la comunione con l’istituzione. Certamente manca del tutto una riflessività realistica sulla necessità di una filosofia della storia. Si è proprio fuori dal paradigma. Manca riflessività sul fine ultimo naturale come anima della laicità. Il Concilio ha favorito una riflessività del laico come cristiano, ma manca del tutto la riflessività del cristiano come laico, come studio nel libro Laicità e cristianesimo. Rivedere il rapporto natura-grazia per una maggior efficacia culturale. E ci sono altre riflessività da prendere in considerazione, ma intanto è bene accorgersi che quasi tutti credono di aver sufficiente riflessività su tutto ciò che pensano, mentre è chiaro che la riflessività deve sempre crescere, ad incominciare dalla mia per quanto mi riguarda.
Riassumendo, le grandi luci della metafisica dell’’atto di essere relazionale, la scoperta sempre più approfondita del cuore umano mosso sempre segretamente dal consenso esistenziale in un gruppo primario che condiziona oltre ogni dire il pensare e l’’agire di tutti, una ritrovata armonia del rapporto grazia-natura, una distinzione chiara nel cristianesimo tra religione e fede, la distinzione tra carità e opere di carità, o misericordia e opere di misericordia, lo studio quasi esclusivo portato avanti sui “tre convincimenti” dello Spirito Santo e le luci sulla nuova evangelizzazione con una Chiesa tutta carismatica, mi hanno fatto vedere tante grandi “incompiute”: quella della metafisica classica, quella dei Padri orientali che sostituiscono la perfezione ultima dell’’atto di essere con lo Spirito Santo, quella di Lutero e quella del Concilio di Trento, quella di Maritain, quella di Cornelio Fabro, quella importante di De Lubac e seguaci sul grande tema del fine ultimo, e naturalmente quella di tutti gli antimetafisici. E anche quella di sant’Agostino e di san Tommaso, i due grandi campioni intramontabili che però non approdano anche ad una filosofia della storia del tutto necessaria per fondare la laicità e il senso ultimo della creazione nella storia per il bene dell’umanità. Attualmente occorre parlare dell’incompiuta dei pastori, che propongono la nuova evangelizzazione parlando sempre di comunione in Cristo, ma senza saper distinguere una comunione primaria, tanto da permettere a tanti che si reputano cristiani di mantenere il cuore in altre appartenenze primarie. E anche l’incompiuta del Catechismo, che non aiuta a distinguere nel cristianesimo la fede dalla religione, come spiego ampiamente nel libro Saper di Amore.In modo speciale occorre riflettere sull’atto generativo, sul perché le realtà carismatiche generano tanti fedeli desiderosi di santificarsi mentre Vescovi e sacerdoti predicano, organizzano, si sacrificano, ma sono molto poco prolifici.
Naturalmente qualcuno in futuro scoprirà la mia incompiuta, portando avanti l’avventura del pensiero e della ricchezza umana. Intanto ci illumina l’approfondimento del fondamento metafisico attraverso l’atto di essere relazionale e il primato del consenso in un gruppo primario rispetto all’uso della ragione (2) . Solo così ci si può aprire alla post—modernità senza cadere nel caos delle relazioni di relazioni senza alcun fondamento. È questa la grande sfida culturale che ci attende, la grande chance della post-modernità di aprire le scienze dell’uomo all’amore. È l’amore, nella sua ricchezza relazionale, che detta legge al cuore e alla mente, ai rapporti familiari, sociali, religiosi e soprannaturali, con buona pace per tutti i relativisti, scettici o atei che si ritengano3.
1) Nuova evangelizzazione e comunione primaria in parrocchia, Ed. Cantagalli, Siena 2014². Si predica incessantemente la comunione, come condizione fondamentale della vita cristiana, ma in genere il legame primario rimane in altre relazioni sociali, rendendo vani tanti sforzi pastorali. Solo i religiosi e nell’ultimo secolo le realtà cattoliche carismatiche riescono ad offrire comunione primaria. Ma lo ottengono anche i partiti ideologici, le sette religiose, i gruppi di coetanei in cui i giovani si giocano il modo di vivere; e tutto ciò impedisce a tanti cattolici anche praticanti di entrare col cuore nel Vangelo vivo, nella vita teologale. Occorre un kerigma che coinvolga, un annuncio che porti ad una scelta di un cammino carismatico, che potrebbe facilmente sorgere in tante parrocchie, pur che i fedeli si trovino di fronte alla possibilità di partire con gli altri. Ma per questo tema rimando al libro citato.
2) Posso serenamente dire che queste due riflessività hanno fugato in me ogni tentazione contro la fede, sia eventuali dubbi sull’esistenza di Dio e della vita eterna, sia sul mondo nuovo della fede come luogo di salvezza già su questa terra.
3) C’è da dire che il mio filo rosso si è dipanato in modo dilettantesco, nel senso positivo che il termine può avere. Un teologo specialista deve concentrarsi su temi particolari, svolti con serietà scientifica e taglio professionale. Il teologo dilettante corre molti rischi, quasi sempre fatali, per la facilità con cui ci si può illudere di aver capito qualcosa di più importante, ma senza confrontarsi scientificamente con gli specialisti. Tuttavia solo chi affronta in modo dilettantesco i numerosi aspetti fondamentali della vita umana e cristiana può aspirare ad una sintesi più profonda. Chi può pensare di impadronirsi in modo specialistico dei meandri psicologici, degli intrecci sociologici, dei condizionamenti genomici, e di tutti i rami della teologia o della filosofia? Solo affrontando in modo dilettantesco tutti i rami del sapere si può affrontare in modo “professionale” il tema della sintesi, del cuore profondo della vita cristiana. Sono sempre stato mosso dalla necessità di appronfondire la punta della piramide, l’unità di fondo. Questo mi ha portato, dato anche i limiti enormi di tempo che una intensa attività sacerdotale porta con sé, a curare poco il modo di scrivere e la cura scientifica di ogni affermazione. Lascio alla buona volontà del lettore lo sforzo di superare questi limiti. Mi consola pensare che se san Tommaso è all’apice della professionalità teologica, sant’Agostino procede con slancio di dilettante, raggiungendo profondità inaudite.