Analogia cristica
Riporto un paragrafo del libro Laicità e cristianesimo:
Cristocentrismo e analogia cristica
Il Concilio Vaticano II ha sconvolto gli orizzonti teologici e ha scavalcato il problema natura-grazia puntando sul cristocentrismo. In piena consonanza ci poniamo nell’ambito di un cristocentrismo “obiettivo”1; con questa espressione si intende non solo che Gesù Cristo è l’unico salvatore del mondo, ma che in Lui tutto è stato creato, in un unico disegno di Dio che prevede il fine ultimo soprannaturale. Già nella creazione si dà una parentela stretta tra l’uomo e Gesù Cristo. L’uomo, capax gratiae, creato ad immagine e somiglianza divina e pensato da Dio e modellato sull’umanità del Figlio. Gesù Cristo è il modello sia dell’umanità creata che dell’umanità redenta, anche se a livelli differenti.
Bisogna dire, però, che il cristocentrismo può essere inteso in molti modi. Il Concilio non ha risolto tutti i problemi. È ben diverso un cristocentrismo su base metafisica da quello antimetafisico, dove ogni significato del creato viene dal disegno soprannaturale e si sostiene di fatto sulla grazia. Le premesse filosofiche affiorano necessariamente al parlare di cristocentrismo, che di per sé non fa riferimento ad una filosofia. Da una parte c’è la certezza che tutto è creato in Cristo e che pertanto tutte le dimensioni umane trovano in Cristo una loro pienezza di contenuti e di conoscenza. In questo senso il teocentrismo classico, la teodicea di stampo razionalistico, su base metafisica essenzialistica è chiaramente fallita, dopo aver in gran parte causato l’alienazione della filosofia dall’unità di vita, con il deismo prima e con l’illuminismo presuntuoso e tragico nella sua pretesa di pura ragione e di morale autonoma. Il Concilio Vaticano II ha potuto dire: “Cristo, nuovo Adamo, al rivelare il mistero del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo all’uomo, e gli rivela la sublimità della sua vocazione”2. In Cristo c’è pienezza di umanità e manifestazione della nostra sublime vocazione soprannaturale. Non c’è solo Redenzione, ma anche presa di coscienza di tutto ciò che è umano. Tuttavia anche questa espressione del Concilio può essere intesa a partire dalla propria filosofia, come fa rilevare P. O’Callaghan, che si domanda: “Non è possibile che, nonostante tutto, un cristocentrismo sistematico possa confondersi, in realtà, con una specie di antropocentrismo camuffato?” Non poche volte, infatti, come è stato fatto notare nel contesto di una riflessione cristologica fortemente marcata dall’interesse soteriologico, le diverse concezioni cristologiche non sono altro che proiezioni dei modi comuni di interpretare il senso dell’esistenza umana. Il cristocentrismo non sarebbe altra cosa che un antropologismo nascosto3.
In Cristo c’è la cifra della vera umanità. Se è vero che esiste un unico disegno di Dio, “nascosto nei secoli”, e tale disegno si attua tutto a partire da Cristo, è pur vero che Cristo ha avuto più nascite su questa terra: dal Protoevangelo in cui si rende presente (è pur una nascita tra noi) nella profezia e nella speranza, alla piena umanità di Nazaret (in cui si può vedere il valore autonomo, storico, della creazione), alla risurrezione, che implica nuova creazione, in continuità e forte discontinuità con la prima. Non si può ignorare che i testi di Giac 1, 18; Gal 6, 15; 2 Cor 5, 17; 2 Pt 3, 13 indicano una novità ontologica e non solo morale. Non sempre si tiene presente questa differenza in Cristo stesso di ciò che lo rende causa formale della nostra natura e di ciò che lo rende causa finale di tutti per la piena realizzazione dell’unico disegno di Dio di averci in comunione trinitaria. La “predestinazione cristica” della creazione va intesa perlomeno in due modi: nel senso più proprio è il disegno eterno di Dio di divinizzarci dandoci la vita del risorto. Quest’aspetto principale non è ancora ontologico, come stiamo dicendo. Allo stesso tempo la creazione stessa è in Cristo, in senso ontologico, e cioè siamo creati nell’umanità di Cristo, in quanto nato da Maria4. La causa formale dell’uomo creato non può essere immediatamente il risorto, altrimenti la natura sarebbe pura potenzialità verso dei contenuti, che sarebbero quelli soprannaturali5. Nel gioco analogico rientra l’articolazione della religiosità naturale. La chiarezza biblica del fine ultimo soprannaturale, l’essere creati per poter partecipare un giorno alla comunione trinitaria nel Cristo risorto, non deve impedire di vivere l’umanità schietta del Cristo prepasquale, piuttosto trascurata dai Vangeli proprio perché non si distingueva dalla nostra umanità.
Sarebbe imperdonabile confondere il fatto che Gesù è Dio con il dire che la sua umanità non ha nulla di divino se non in quanto è assunta dalla persona del Verbo. In questo caso il divino sarebbe solo soprannaturale. L’umanità di Cristo ha un corpo e un’anima immortale, destinata all’eternità. L’uomo creato ad immagine di Dio ha molto di divino, sia in Gesù che in tutti noi. Non bisogna mai pensare l’umano, lo storico, come l’orizzontale, il terrestre, lasciando al verticale solo il soprannaturale. Da questo errore, assai diffuso, può venire il cristomonismo con l’impossibilità di dialogare con le altre religioni, oltre a favorire oltremodo il secolarismo. Oggi si combattono posizioni teologiche che vedono tutto in Cristo con altre che vedono in questo cristocentrimo monistico un vero fondamentalismo. Ratzinger riporta questo tentativo di rimozione della cristologia nella teologia, nato in area presbiteriana americana e rapidamente diffusasi anche tra i cattolici, specie in Asia. Il cristocentrismo sarebbe il più grande attentato contro le grandi conquiste del pensiero umano: la tolleranza, la libertà; porterebbe alla dissociazione tra fede e amore, perché il particolarismo sarebbe sempre fanatismo6. Penso che con l’analogia cristica, perlomeno in campo cattolico, sarebbe più facile trovare un dialogo più costruttivo.
I padri della Chiesa dicevano: totus in suis, totus in nostris, per indicare che Gesù come Figlio di Dio era tutto in Dio, ma come figlio di Maria era uomo perfetto. Se ogni bene del mondo è già cristiano, ma non si distingue la creazione in Cristo, come figlio di Maria, nella sua umanità, dal Cristo risorto, allora per i cristiani tutto si riduce al soprannaturale e per i non cristiani tutto si riduce allo spirito creato. Non ha più significato distinguere cultura da teologia, fede da religioni naturali, se non per le confusioni o i peccati maggiori o minori che contrasterebbero l’unica verità soprannaturale. Invece, secondo noi, si può rimanere ancorati al cristocentrismo obiettivo sapendo distinguere la creazione nell’umanità del Verbo dalla Redenzione in Cristo morto e risorto.
La posizione più vicino alla nostra è quella del cristocentrismo aperto alla metafisica. Oltre ad Angelo Scola, Inos Biffi, Giacomo Biffi, che abbiamo già citati, possiamo citare Alessandro Maggiolini, per rilevare un limite che ci sembra necessario superare: «Per la rivelazione cristiana il Signore Gesù è l’unico Nome nel quale a tutti è offerta la salvezza. Il Verbo incarnato morto, risorto e glorioso che manda il suo Spirito, è il centro del disegno di redenzione voluta dal Padre: in lui l’intera umanità e lo stesso cosmo trovano la propria causa, il proprio modello e il proprio fine. Solo con la grazia che Cristo ci elargisce nello Spirito noi possiamo giungere alla conoscenza della verità che salva, all’identificazione e all’attuazione della norma per il retto agire, e al gusto per la bellezza. Non c’è lembo di verità, di moralità e di meraviglia che non derivi, non porti, e non sia tale per l’intervento dello Spirito che deriva e conduce al Signore Gesù e per questi al Padre. Il cristocentrismo non è una teoria possibile o probabile: è una certezza che mostra l’architettura del piano di provvidenza voluto da Dio. Ogni rifrazione del vero anche in un filosofo e non solo in un santo; ogni intuizione del bene anche in un uomo di retto sentire e non solo in un cristiano; ogni accenno al bello anche nell’opera di un incredulo e non solo in campo religioso cattolico, è esito dello Spirito di Cristo; è manifestazione dello stesso Signore Gesù nel quale si trovano tutti i tesori di sapienza, di scienza, di santità e di arte. (…) Tutto ciò sia detto senza dimenticare che la chiamata dell’uomo e del cosmo alla grazia non soffoca e non mortifica la componente creaturale: il santo è chiamato a essere uomo perfetto e ultimamente proprio a motivo del suo essere santo»7. Ci sembra francamente che si mortifichi l’analogia tra creazione e Alleanza. Le ultime parole salvano volontaristicamente una diversità della creazione, ma ciò che è detto sopra la riduce a pura potenzialità che trova nella grazia e solo nella grazia la propria identità ontologica. Ribadendo che tutto è creato in Cristo, occorre però distinguere, con chi può capire la distinzione, o cambiare linguaggio con chi non ha fede. Tra il Cristo prepasquale e il Cristo postpasquale c’è una grande differenza: continuità di identità personale e novità ontologica, nell’essere. Anche in noi c’è immensa differenza: «Quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14, 20); «è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore» (Gv 16, 7), dove si vede che c’è un’azione del Paraclito pentecostale che è differente dal suo agire a sostegno e illuminazione di tutti e da sempre. Questa differenza è forte, è ontologica, non è univoca con quella; è analoga. E potremmo continuare a citare innumerevoli testi sulla novità di vita in Cristo risorto. Se proponiamo un cristocentrismo indifferenziato (magari a parole si concede una qualche autonomia del creato, specie per la legge morale naturale, ma occorre fondare ontologicamente il tutto); se subito sostituiamo l’uomo con Cristo senza distinguere il cristocentrismo cosmico da quello specifico postpasquale, finiamo per impedire il dialogo con le altre religioni, con gli uomini di buona volontà, oppure dobbiamo ridurre tutto al naturale: non facciamo un buon servizio a Gesù Cristo!
Ci sembra importante quanto dice Bruno Forte riassumendo gli esiti del cristocentrismo dopo il Concilio Vaticano II: «Nella sua vera e piena umanità Gesù Cristo è rivelazione di Dio: qui si fonda l’esigenza di raggiungere attraverso i tratti del Gesù storico la profondità del mistero che in essi si offre. Non si tratta di narrare un’ennesima storia di Gesù (…). Si tratta di investigare nei “mysteria vitae Jesu” le dimensioni dell’umano, che in essi si manifestano e attraverso cui passa la rivelazione del Dio vivente, leggendo nella storia il “kerygma” e nel “kerygma” la storia, cogliendo cioè in pienezza la feconda circolarità attestata nel Nuovo Testamento fra il Gesù storico e il Cristo pasquale. Si tratta di ricostruire la storia della coscienza e della libertà dell’uomo Gesù, come l’esperienza della sua finitudine, vissuta conoscendo di persona il dolore e la morte, nella convinzione fondata nella luce di Pasqua che tutto ciò che viene tolto alla vera e piena umanità del Salvatore, viene tolto alla rivelazione della sua divinità»8. È pure da ritenere quanto afferma Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio, n. 29: «Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito». Tutte cose verissime, ma solo se lette a partire da una antropologia previa, altrimenti tutto diventa antropologia teologica.
Il breve tempo della vita terrena di Gesù non toglie assolutamente nulla alla sua pienezza umana, vera causa formale dell’umanità nella storia. Cristo risorto è anche causa formale, ma dei redenti, non di ciò che costituisce la natura umana. Occorre sviluppare una analogia cristica. La causa formale richiama necessariamente la causa finale. Pertanto se individuiamo una formalità diversa in Gesù nato da Maria rispetto al Cristo risorto, vuol dire che Dio ci ha creato certamente con il disegno ultimo della partecipazione intima alla sua gloria trinitaria, propria del risorto, ma vuol dire pure che la creazione secondo la formalità dell’umanità propria di Gesù di Nazaret si regge anch’essa su di un fine ultimo, in Dio, che è di ontologia naturale, fondamento di tutti i fenomeni storici che non siano già soprannaturali o della storia della salvezza. Anche la storicità dello spirito umano e della socialità che ne deriva ha bisogno di un punto trascendente che la finalizzi, che non può essere soprannaturale. Non ci può essere vera Cristologia senza Mariologia, vera soteriologia senza affermazione dell’umano.
Abbiamo visto come Gesù sia l’unico fondatore di religione che abbia separato chiaramente la vita civile, politica, culturale, dalla fede che viene a portare per chi crede in Lui. Come, dicendo “date a Cesare quel che è di Cesare” non intenda certo che Cesare possa fare quello che vuole: deve cercare la volontà di Dio secondo la legge naturale, distinguendosi tutto ciò dalla rivelazione divina che gli ebrei già conoscevano e che si completava in Gesù. Gesù ci tiene a distinguere un ordine naturale (il matrimonio del principio, l’autorità civile, le leggi dello stato, la bellezza dei gigli, ecc.) dal dono soprannaturale. Vede tutto con il suo sguardo, che vien da Dio, ma con chiara articolazione. Riassume tutto in sé, ma con consapevolezza della differenza della sua schietta umanità dal dono della risurrezione che ci guadagnerà sulla croce.
Gesù risorto è l’uomo nuovo nella fede; è “spirito vivificante”. Il Cristo risorto è metastorico: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio”(Col 3, 1-2). Sono due istanze diverse, che devono trovare unità di vita nel cristiano in mezzo al mondo. Sono due istanze che hanno causa formale diversa, in Gesù in quanto nato da Maria e nel risorto9. Se l’istanza cristiana fosse solo nel risorto, facilmente si riterrebbe che il vero cristiano è quello “morto al mondo”, nel senso di abbandono del mondo per una vita nascosta nell’eremo. Senza togliere nulla alle vocazioni che richiamano più visibilmente l’istanza escatologica, è pur vero che la pienezza cristiana deve potersi dare semplicemente nel battesimo, ovunque ci si trovi a viverlo. È il quotidiano la vera cartina di tornasole della salvezza cristiana, non la fuga nel deserto. Occorre anche ricordare che la mistica occidentale è di tipo sponsale, ben diversamente da quella orientale che tende al monismo: l’umano che tende a dissolversi in Dio. Con una posizione troppo sintetica, come fu quella di De Lubac, si perde sia la nitidezza dei valori in campo, sia la bellezza di una piena unità nella ricchezza delle distinzioni. Si rischia di far pensare la Redenzione come presa di coscienza di ciò che già c’era o recupero di ciò che era deviato: se tutto il dinamismo spirituale è già caratterizzato sopranaturalmente, la Rivelazione viene ad essere illuminazione, gnosi, presa di coscienza e aiuto per le ferite, un po’ come le leggi della dinamica, che ci sono sempre state anche se nessuno ci pensava e poi sono venuti gli scienziati a dirci che esistono, o poco più: tutto era già soprannaturale, ma ci voleva la Rivelazione per saperlo. Invece il problema non è solo nel “conoscere”, nella pur necessaria presa di coscienza, ma più ancora nel ricevere realmente, ontologicamente, il dono soprannaturale. Pentecoste è nuova creazione! È lì il dono gratuito che salva. Altrimenti la salvezza sarebbe solo per gli gnostici. Che poi ciò abbia agganci retroattivi non toglie che sia sempre nel Cristo risorto e nel dono pentecostale.
Gesù di Nazaret incarna agli occhi di tutti la laicità, già difficile in Israele. Non è della tribù di Levi (sacerdozio); non è un nazir, come Giovanni (nel cristianesimo sarebbero i monaci e i religiosi professi). Quando diventerà sacerdote, lo sarà in modo nuovo. C’è un’affermazione sorprendente nella Lettera agli Ebrei: Gesù è sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek. Non è sacerdote secondo l’ordine levitico, che è stato abolito, bensì secondo il sacerdozio di quel misterioso re-sacerdote di Salem al quale Abramo offrì le decime, riconoscendolo pertanto superiore a sé. Melchisedek è depositario del testamento cosmico, cioè della primitiva rivelazione, anteriore all’elezione del popolo di Israele, là dove si riconoscono le vestigia di una verità primordiale che ritroviamo in tutte le religioni. È chiaro che anche quella primitiva rivelazione è in Cristo, ma certamente secondo quell’“analogia cristica” che sopra ho invocato. Naturalmente il dono soprannaturale presente nel sacerdozio di Cristo, Sommo ed Eterno sacerdote, sarà ben superiore a quello di Melchisedek, ed elimina quello levitico. In Cristo si ritrova l’universalità umana nella sua apertura al divino e l’assunzione e il compimento di Israele, elevati al dono nuovo specifico della grazia.
Il Gesù di Nazaret era connotato dalla normalità naturale davanti a tutti. Quando inizia ad operare secondo la sua messianicità suscita stupore, proprio in paragone alla sua normalità precedente: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?» (Gv 6, 42; cfr Mt 13, 55-57, dove gli abitanti di Nazaret si scandalizzano proprio per la novità di comportamento che notano in lui, ben conosciuto da sempre con tutta la sua famiglia). E sono i parenti più stretti a notare un cambio profondo, da loro preso per pazzia: «Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: “È fuori di sé”» (Mc 3, 21). Nella vita umana di Gesù si possono vedere in azione i due ordini, naturale e soprannaturale. L’umanità di Cristo non era una emanazione panteistica della sua persona divina, e neppure una pura potenzialità. È vera umanità, vera alterità rispetto alla relazione intratrinitaria: “Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42), anche se in Cristo lo è solo nella natura e non nella persona. Ci sono molti esempi nella vita di Gesù che mettono in chiaro la coesistenza dei due ordini; per esempio, Gesù piange e singhiozza per Lazzaro, con una profonda dimensione dell’amicizia umana, pur essendo immediato l’intervento miracoloso. L’esempio si ripete con la vedova di Naim. Sembra proprio che la valorizzazione dell’umano-naturale dia peso e bellezza alla potenza (intesa come Spirito Santo in azione) che, al di là del miracolo, è già segno della Redenzione. Nella vita di Gesù si trovano numerosi altri esempi. C’è una reale articolazione tra natura e grazia nel disegno divino, un’articolazione che raggiunge Dio stesso!, che si pone come fine ultimo della natura, onde poter offrire all’uomo, capace di libertà e di azzardo estremo riguardo al fine ultimo, il dono della vita trinitaria. Questo dono appaga, ben oltre il dinamismo naturale, il desiderio della felicità perfetta, il desiderio, che è dell’uomo, di vedere Dio. Dio, nell’andare incontro a questo desiderio, si dona ben al di là di quanto il cuore umano possa desiderare, come ben sa san Paolo: «A colui che in tutto ha potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare» (Ef 3, 20).
Tra il Gesù di Nazaret e il Risorto c’è un passaggio ontologico, di grazia, nuovo e sconosciuto al desiderio dell’uomo10. E se c’è questa articolazione in Cristo non si vede perché non si possa cogliere la diversa formalità anche tra il creato e il redento, pur essendo aspetti dell’unico disegno di Dio, come è assolutamente evidente in Cristo. Se Dio ha dato una natura umana al Figlio, diversa da quella gloriosa, (in cui chiaramente c’è un nuovo intervento creativo, di “nuova creazione”) non si vede perché non si possa accettare che l’unico disegno di Dio di averci in comunione trinitaria si attui attraverso articolazioni profonde, che del resto è possibile studiare con i dati a nostra disposizione.
Qui va posto il problema della gratuità della grazia. Il fatto che tutto sia stato creato in Cristo non vuol dire che ontologicamente la creazione partecipi dall’inizio dell’atto di essere proprio del Risorto, come è dato invece nella filiazione divina operata dallo Spirito Santo in noi. Ci sono valori relazionali molto importanti, ma non ancora ontologici.
Possono aiutarci le parole di M. Bordoni: «Si rischia di oscillare sempre tra il pericolo di un “antropocentrismo”, riduttivo della cristologia al solo significato che ha Cristo per l’uomo e quello di un “fondamentalismo cristologico” o “cristomonistico”, riduttivo dell’anthropos, per il quale tutto ciò che possiamo dire dell’uomo lo sappiamo solo in Gesù Cristo, onde ogni previa antropologia viene esclusa. Neanche l’originale modello estetico di H.U. Von Balthasar può offrire una soddisfacente soluzione, pur con il generoso tentativo di salvaguardare la gratuità e la novità del valore cristiano della rivelazione, nella misura in cui non riesce a tutelare con altrettanta oculatezza il positivo rapporto esistente tra un’antropologia previa e la cristologia. Le difficoltà della reciproca mediazione tra antropologia e cristologia vanno attribuite ad una carenza della prospettiva metafisica, in cui solo è possibile trovare quel principio che fonda la relazione complementare tra antropologia e cristologia»11. A noi sembra che Balthasar non riesca a salvare la gratuità del soprannaturale. Ma è certo quanto dice Bordoni: occorre una antropologia previa, che io chiamerei antropologia sapienziale. Non si può conoscere l’uomo solo con quanto detto dalla Scrittura. Quando si riporta la cultura a Cristo, in parte è giustificato, ma in parte impedisce proprio il fare cultura. Sapienze antiche e studi moderni, specialmente di psicologia e di sociologia, alcuni almeno, hanno potuto dire molte cose di una umanità che ha potuto in parte essere vissuta da Cristo a Nazaret. Questa dimensione attende un grande apporto da parte dei cristiani in quanto capaci di discernere la dimensione laicale dell’uomo. Se nella Scrittura c’è molta sapienza, è pure vero che non c’è impegno per un quadro sapienziale quale oggi è necessario.
Tutto è di Cristo, perché tutto è creato in Lui, ma questo lo sappiamo per fede. E per fede sappiamo che c’è una distinzione tra natura e grazia, tra religiosità dell’animo umano (già con luci di Spirito Santo) e azione dello Spirito Santo dopo Pentecoste; tra Cristo prepasquale e Cristo risorto. Su questa base, tra l’altro, è più facile il dialogo interreligioso.
Il cristocentrismo obiettivo trova il suo testo principale in Col 1, 13-20, di cui ci interessano i versetti 15-16: «Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui». Mentre per i versetti precedenti e seguenti non c’è dubbio che si parli del Cristo morto e risorto, capo della Chiesa, in cui si riconciliano tutte le cose, nel testo centrale si parla della creazione, distinguendola dalla redenzione. Lo si cita come “Egli è immagine del Dio invisibile”, che nell’inno parallelo di Fil 2, 6-11 chiaramente si addice al Figlio, più che al Cristo. Si fa riferimento anche alla creazione degli angeli, e concretamente dei Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Difficile vedere in essi la causalità formale del Cristo, mentre non c’è alcuna difficoltà per la causalità efficiente del Verbo che agisce sempre in unità con il Padre e lo Spirito. Questo per dire che il nostro testo lascia aperte tutte le interpretazioni sul significato della creazione in Cristo. L’arianesimo, come si sa, vedeva una creazione del Figlio prima della creazione, ma dopo Dio, o in una divinità gradualmente inferiore. I Padri hanno usato il prologo di san Giovanni e Col 1, 15 per dimostrare che si tratta del Verbo, l’Unigenito, e cioè del Figlio in senso stretto. Il testo indica la superiorità del Logos su tutte le creature e cioè la sua divinità. È ben diverso quando poco dopo lo chiama “primogenito di tutte le creature”, indicando più specificamente il Cristo: il Verbo, in quanto incarnato, è “manifestazione” del Padre nella creazione, principio di unione tra tutte le creature, con un primato su di esse12. Si vede che l’autore sacro ha ben chiare le tre identificazioni del Verbo incarnato: come Verbo, come vero uomo (“tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”, (Col 1, 16: se il “per mezzo di lui potrebbe richiamare il Logos creatore, il “in vista di lui” indica la causa formale dell’uomo come creatura) come Gesù nato da Maria, e come Cristo (Col 1, 18), in modo da poter concludere: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col 1, 19-20). Del resto, occorre leggere questo testo nell’unità delle lettere paoline. Innanzitutto con 1 Cor 8, 6: «per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto (ex ho tà pánta) proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose (diá hou ta pánta) e noi esistiamo per lui»; l’apostolo si serve di una formula basata in proposizioni, che sembra trarre dal pensiero stoico, per descrivere l’azione creatrice del Padre e la funzione di Cristo nella creazione. La preposizione ex (dal quale tutto) indica l’origine della creazione (il Dio unico), mentre che la preposizione diá indica il mediatore divino per creare (Gesù Cristo). Come fa notare Ruiz de la Peña: «ciò che caratterizza questo testo è che, per prima volta, Cristo appare al lato del Padre nel compito creatore. Nel testo di Rm 11, 36, Dio (Padre) ostenta in esclusiva tutte le funzioni creatrici: il gioco di preposizioni (ex, diá, eís) rimette all’unico e identico agente il Padre) la causalità fontale (ex), quella mediatrice (diá) e quella finale (eís) del tutto (ta pánta). Nel testo che commentiamo, in cambio, la totalità della realtà creata (ta pánta, come in Rm 11) è effetto allo stesso tempo del Padre e del Figlio. Tuttavia le proposizioni differenti (ex ed eís per il Padre; una doppia diá per il Figlio) insinuano che la causalità di entrambi si situa su piani diversi. Il Padre è il principio e il fine; Cristo è il mediatore della creazione come e perché lo è della salvezza»13
Agli Efesini san Paolo scrive: «predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ef 1, 5) (…) egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi (Ef 1, 9-10)», dove si vede che c’è un disegno che prevede la realizzazione nella pienezza dei tempi e non da subito. Dato che l’elevazione al fine ultimo soprannaturale è opera di questa nuova creazione, è evidente che la creazione deve avere una sua consistenza ontologica ultima a lei connaturale. Come si può prescindere dalla distinzione tra l’ordo intentionis e l’ordo executionis? Eppure oggi molti sembrano ignorare tale distinzione, che è poi la distinzione metafisica tra il gnoseologico e l’ontologico. Gesù a Nicodemo dice che occorre rinascere: per la nuova nascita occorre che ce ne sia un’altra prima, con una sua consistenza umana, a immagine divina. Solo accogliendo il Verbo incarnato, ci dice il Prologo di san Giovanni, ci viene dato il potere di essere figli di Dio, «a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati».
Solo così, tra l’altro, sarà possibile distinguere bene teoricamente la religione dalla fede, altrimenti la teologia ci dà approfondimenti meravigliosi della nostra fede, ma i fedeli continuano a tradurli in termini religiosi, di adempimento, di culto, di buone opere. Il cristologismo rischia infatti di togliere ogni consistenza alla religione, omogeneizzando fede e religione; ma finisce che in pratica ci rimette la fede viva nel Cristo risorto, presente alla mia vita, contemporaneo: si relega la fede ai tempi e ai riti religiosi. Senza analogia cristica si finisce per abbandonare la metafisica: si sostituisce l’atto di essere creato con un disegno soprannaturale di Dio che ancora non è posto in essere; da qui il fideismo. Del resto i nominalisti (antimetafisici) credenti sono sempre fideisti.
Nel linguaggio vivo della Scrittura non ci si ferma sempre a distinguere le diverse identità del Cristo. Data l’unicità della persona divina, è facile sorvolare tra il Verbo, Gesù di Nazaret e il Cristo risorto. Dire cristocentrismo non vuol dire che tutto in noi e in Cristo si dà nello stesso modo. In lui c’è una unità nella persona divina che in noi non si può dare. E se Dio ha voluto forti articolazioni, occorre rispettarle.