Desiderio naturale di vedere Dio
ABSTRACT
San Tommaso parla di un desiderio naturale di vedere Dio “sicuti est” (che d’ora in poi indicheremo con il termine latino desiderium) e cioè nella sua essenza soprannaturale. In tanti modi l’Aquinate dice che il soprannaturale non è raggiungibile dallo spirito umano con le sole sue forze, ma lascia pensare che il desiderium sia presente proprio come unico fine soprannaturale. Ora il fine ultimo è unico, ma anche necessario. Se necessario implica una connotazione soprannaturale della natura stessa dell’uomo, e ciò è negato esplicitamente da Tommaso. Eppure dice che il desiderium non può essere vano. Rimane aperto un dibattito spinosissimo. A metà del secolo scorso De Lubac ha interpretato il desiderium in senso soprannaturalistico: per san Tommaso esiste solo il fine ultimo soprannaturale, come fine intrinseco allo spirito umano. Altri dicono che occorre prima un dono di grazia per poter dire che l’uomo inserra un desiderio naturale di veder Dio. Elevati alla grazia il fine ultimo dell’uomo è soprannaturale, ma in modo elicito, cioè dopo il dono.
La nostra interpretazione è diversa: studiando bene i testi tomisti si vede che l’uomo ha un suo fine connaturale, come creatura. Essendo il fine di una creatura spirituale creata per l’amore pone nell’animo umano la ricerca necessaria della felicità più grande. Sulla base di questo dinamismo, Dio sorprende l’uomo con la vera felicità ultima, che è soprannaturale. Il dinamismo verso la felicità ultima è necessario, ma non è necessario all’uomo creato il fine ultimo soprannaturale, perché il fine ultimo caratterizza ontologicamente tutta la natura e pertanto non ci sarebbe più distinzione tra natura e grazia. Ma il desiderium non è puramente estrinseco, bensì determina una grammatica divina presente nell’uomo, che lo rende capax gratiae. I soprannaturalisti non vogliono sentire parlare di potenza obbedienziale, perché la intendono puramente passiva, mentre esiste una potenza obbedienziale specifica, con altre parole invocata da san Tommaso, che permette a Dio di averci in sé, nella visione beatifica. Ogni madre desidera un figlio perfetto, ma Maria non diventa madre di Dio come realizzazione di quel desiderio, ma per potenza obbedienziale specifica. Specifica nel senso che una donna può diventare madre di Dio, se Dio lo vuole, mentre san Giuseppe non ha tale potenza obbedienziale. Dio poteva far diventare san Giuseppe “madre di Dio”? Dato che può far sorgere figli di Dio dalle pietre, avrebbe potuto, ma con potenza obbedienziale puramente passiva.
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Riporto alcuni paragrafi del libro Laicità e cristianesimo
Il desiderio naturale di vedere Dio
Non c’è alcun dubbio che dagli anni cinquanta siano stati fatti buoni progressi. I cattolici hanno ritrovato l’afflato biblico, e ciò non ha prezzo. A dire il vero i progressi teologici sono stati immensi. Proprio questo può convincere aprioristicamente della validità dell’unico fine soprannaturale, che ha accompagnato questi progressi. E può riempire di sdegno il sentire che qualcuno vuol rispolverare anche solo l’idea di un fine ultimo naturale. Ma la debolezza culturale dei cristiani è aumentata. Inoltre, come fa notare Giovanni Paolo II nella Fides et ratio: «Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un’espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il “biblicismo”, che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo» (n. 55)1. Si può dire che c’è stato un grande cambiamento, con doni irrinunciabili, ma anche con ambiguità e confusioni, con incertezze e debolezze, soprattutto nella responsabilità verso il mondo e nella coerenza morale. A noi sembra proprio che occorre portare il rapporto grazia-natura a livelli superiori. Per ritrovare la vera forza della ragione occorre ritrovare il suo dinamismo ultimo, la sua capacità di interrogarsi sul destino dell’uomo con possibilità di cogliere aspetti importanti della verità; ciò non deve avvenire a scapito dell’approfondimento biblico operato.
Come è risaputo, una grande novità è venuta dall’interpretazione che ha dato De Lubac al tema del desiderio naturale di vedere Dio proprio di san Tommaso. Eliminando il fine ultimo naturale, per come era sempre stato inteso dalla scolastica razionalista, si è potuto marciare decisi nelle vie soprannaturali e bibliche. Dato l’intervento tempestivo della Humani generis, sia De Lubac che tanti altri teologi fino ai nostri giorni non mancano di riconoscere che Dio potrebbe creare con un fine ultimo naturale, ma di fatto ciò è una ipotesi chimerica e puramente astratta. I teologi soprannaturalisti, quando ammettono come pura ipotesi che Dio poteva creare un altro mondo in cui l’uomo non fosse destinato al fine ultimo soprannaturale, per salvarsi dalla condanna della Humani generis, non pensano minimamente alla consistenza ontologica di un fine connaturale di natura ultima che sussiste ed è assunto nel cuore del fine ultimo soprannaturale, come noi osiamo sostenere in modo ben diverso dai fautori della natura pura di impianto essenzialistico. Ripeto che i meriti di De Lubac e della Nouvelle Theologie furono grossi, non solo per la spinta agli studi biblici e al rinnovo della teologia, ma anche per il coraggio con cui si è potuti andare contro un paradigma essenzialista che condizionava la metafisica e la teologia. Però questo non vuol dire che la sua interpretazione della tesi di san Tommaso sul desiderio naturale di vedere Dio sia quella giusta. Negare l’essenzialismo non vuol dire superarlo; può essere un semplice rovesciamento antiformalistico che lascia via libera alla teologia, ma su di una base metafisica insufficiente.
Forse è opportuno richiamare poche nozioni sul fine ultimo. È la causa causarum, il dinamismo ultimo che muove tutte le cause costitutive dell’ente. In questo senso è il dinamismo più intimo e profondo, ontologicamente più consistente, in ogni ente. Il fine ultimo è sempre intrinseco, pur proiettandosi all’oggetto della finalità ultima che è necessariamente trascendente rispetto all’ente. Dio, termine ultimo di ogni ente, non è intrinseco agli enti, è estrinseco, ma è intrinseco all’ente dare gloria a Dio, rivolgersi dalla parte di Dio e tendere con tutte le proprie forze al legame di carità con Dio. Amore naturale secondo lo spirito creato, amore soprannaturale, o carità, nel dono di grazia che Dio ha previsto da sempre come vero fine ultimo per l’uomo. Si può anche precisare che in ultima istanza il fine ultimo non è precisamente Dio in sé stesso: neppure in cielo noi saremo Dio; ma il legame d’amore con Dio, che ci divinizza pur lasciandoci creature umane. Con queste precisazioni diventa giusto semplificare e dire che Dio è il fine ultimo sia naturale (con contenuti propri allo spirito umano) sia soprannaturale, ma è anche chiarito che di per sé il fine ultimo è sempre la dimensione più intima ed intrinseca dell’ente. Ugualmente diventa manifesto un aspetto che forse anche san Tommaso ha semplificato un po’: per conoscere Dio come fine ultimo soprannaturale occorre ciò che è sempre stato chiamato il lumen gloriae, un dono particolare che ci rende capaci di visione divina. San Tommaso usa questo argomento per passare facilmente dal fine ultimo naturale a quello soprannaturale: le creature razionali devono raggiungere il loro fine ultimo coscientemente, ma non è dato loro vedere Dio e pertanto ricevono il lumen gloriae. Solo che il lumen gloriae è già soprannaturale. Occorre dire che anche naturalmente, anche perché si possa concepire il fine ultimo naturale, che consiste nel vedere in qualche modo Dio (come spiega lo stesso Tommaso, che più avanti citeremo), occorre un darsi accondiscendente di Dio. Dicendo che il fine ultimo, sia naturale che soprannaturale non consiste nel diventare Dio, ma nel vedere e godere di Dio, Dio rimane però al di sopra di qualunque potenzialità della vita umana. Ciò che rende trascendente il fine divino in ogni creatura, per essere colto coscientemente dalla creatura razionale richiede, per il raggiungimento, di una accondiscendenza da parte di Dio stesso. Ma ciò non è ancora il dono dell’innalzamento soprannaturale, nell’intimità trinitaria. Con vaga approssimazione, e senza cadere in inganno, si può pensare a come la sessualità maschile è chiaramente finalizzata a quella femminile. Nell’istintualità animale tutto si svolge in modo scontato. Nelle creature libere invece ciò che è finalità intrinseca del corpo umano richiede l’accondiscendenza dell’altra parte; nel fine ultimo, però, l’accondiscendenza viene dall’alto, e in questo senso l’esempio è poco significativo. Comunque ci serve per capire che il fine ultimo naturale è intrinseco e necessario in ogni ente, ma negli esseri liberi, desiderosi di vedere Dio, non è scontato e richiede un aiuto di conoscenza. È sempre un dono.
Detto questo, quasi tutti gli interpreti oggi sono concordi che De Lubac, pur con tante espressioni incerte ed equivoche necessarie allora per non incorrere negli strali delle condanne che pur dovette sostenere, ha interpretato il desiderio naturale di vedere Dio nella sua essenza (che d’ora in poi indicheremo con il termine latino desiderium), e cioè –secondo le precisazioni di san Tommaso- in modo soprannaturale, nel senso di un unico fine ultimo soprannaturale, connotando questo desiderium in modo assoluto e intrinseco alla natura umana, ma già integrato nel dono soprannaturale. Come si sa, tanti altri hanno cercato di vedere il desiderium in modo “elicito”, cioè presente nell’uomo in seguito a una qualche notizia soprannaturale sopraggiunta all’uomo per rivelazione. De Lubac, conoscendo bene la distinzione suareziana dei due fini con il loro estrinsecismo e parallelismo, non poteva ammettere due fini. Per lui, dichiara, il fine ultimo naturale sarebbe un copione inutile di quello soprannaturale.
Oggi la maggior parte dei teologi interpreta tutto a partire dal paradigma di De Lubac. Eppure a suo tempo se ne discusse ampiamente e solo De Lubac, con pochissimi altri, sosteneva che in san Tommaso il desiderium implica l’intrinsecità del fine ultimo soprannaturale. Ad essere espliciti, è come se l’uomo trovasse al centro della natura del suo spirito creato il desiderio di vivere in unione trinitaria con Dio; questo vorrebbe dire che il soprannaturale è intrinseco all’uomo, mentre, se il desiderium è orientato alla felicità perfetta o alla conoscenza della causa ultima in sé, come lo intende san Tommaso, è sì la base voluta da Dio per poterci innalzare alla visione beatifica, ma di per sé, in quanto intrinseco allo spirito umano, è ancora naturale.
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Alcuni punti fermi
Si sa che l’espressione desiderio naturale di vedere Dio nella sua essenza viene proprio da San Tommaso Il Dottor Angelico usa più volte questa espressione, e aggiunge che un desiderio naturale non può essere vano. Con questa precisazione offre un argomento forte ai sopranaturalisti. Non c’è dubbio che manchi qualche ulteriore e necessaria precisazione, altrimenti non saremmo ancora in alto mare. Tuttavia alcuni punti chiari non possono essere dimenticati.
a) Dove ne parla con più attenzione è nella Summa contra Gentiles in un contesto che bisognerebbe avere ben presente2. In quel contesto appare chiarissimo il fine ultimo naturale. Si ripete continuamente che tutte le creature hanno per fine ultimo Dio. Ma soprattutto non viene mai contraddetto il tema della gratuità della grazia, il tema della trascendenza soprannaturale rispetto alla trascendenza proprio dello spirito creato che in san Tommaso è sempre riconosciuta, la necessità di doni teologali per conoscere il fine ultimo soprannaturale.
b) Importante, inoltre, è capire l’intenzione prossima che porta san Tomaso ad insistere sul desiderium, e cioè la necessità di dimostrare la possibilità della visione beatifica. C’era chi negava tale possibilità anche tra i filosofi cristiani, come, per esempio Scoto Erigena. Come fa notare Ruini, occorre ricordare un fatto importante per il nostro problema: nel 1241 veniva condannata a Parigi la tesi che “l’essenza divina non è vista in se stessa né dall’uomo né dall’angelo” ; sembra che essa sia stata insegnata, nel periodo immediatamente precedente, da teologi soprattutto domenicani come Ugo di san Caro e Guerrico di san Quintino. Ne è seguito l’impegno dei teologi della generazione successiva, tra i quali in particolare san Tommaso, a mostrare che la visione dell’essenza di Dio è possibile per l’intelligenza creata3. C’erano altri che negavano tale possibilità, come i filosofi arabi. San Tommaso vuole difendere la possibilità della visione beatifica; i suoi testi in genere rispondono tutti al problema della possibilità. È ben diverso parlare di un desiderio naturale per dimostrare la possibilità della visione beatifica rispetto al fatto di risolvere il problema della gratuità, che ai tempi di san Tommaso non era problematizzato.
c) Un aspetto del problema consiste nel decidere se il desiderium è presente in modo assoluto e consostanziale nell’uomo, come sostiene De Lubac oppure è un modo di essere dello spirito che Dio ha previsto per poterci innalzare alla sua comunione. Innanzitutto è bene capire come la pensava san Tommaso, anche se nulla vieta che oggi ci siano autori che si discostino da lui in questo campo. Qui tuttavia ci confrontiamo con i tanti che sostengono la tesi di un unico fine soprannaturale rifacendosi a san Tommaso, perché l’equilibrio tra ragione e fede operato dall’Aquinate è ancora insuperato e lo si vorrebbe a sostegno della propria tesi. De Lubac sostiene che in san Tommaso il desiderium è assoluto, e oggi la maggior parte dei teologi è convinta di ciò. Le parole “desiderio naturale” sembrano indicare proprio ciò, per di più con l’aggiunta “non può essere vano”4. Eppure c’è un argomento che a noi sembra dirimente a favore dell’altra tesi. San Tommaso afferma in modo categorico e senza alcun tentennamento che nell’uomo, come negli angeli, c’è un fine ultimo naturale. Ed è questo che ha la caratteristica propria del fine ultimo di essere necessario e intrinseco alla natura. Citiamo, per ora, solo un testo tra i tanti «L’uomo, secondo la sua natura, è proporzionato ad un certo fine e ha la capacità di raggiungerlo: tale fine consiste in una certa contemplazione delle realtà divine qual è possibile all’uomo secondo le facoltà della sua natura: è quella della conoscenza di Dio nella quale i filosofi posero l’ultima felicità degli uomini. Ma c’è un fine al quale l’uomo viene preparato da Dio: un fine che eccede la proporzione della natura umana» (De Verit. q. 27, a. 2; cfr I-II, q. 109, a. 6).
Come si vede non è solo una beatitudine terrena, come sembrava indicare Ruini. È vero però che in S.Th., I-II, q. 3, a. 8 si dice che il fine ultimo è unico ed è quello soprannaturale. Già Ruini notava il pendolo tommasiano. Non è solo l’affermazione della trascendenza del soprannaturale rispetto al naturale, ma c’è proprio, più volte ripetuta, l’affermazione esplicita di un fine ultimo naturale (nel paragrafo dedicato ad esso citeremo altri testi). Le oscillazioni di san Tommaso dipendono dal tema che sta trattando, dagli interlocutori, dal fatto che non sentiva il bisogno di esplicitare i contenuti della vita umana retti dal fine ultimo naturale. Tutto ciò era possibile perché non si era ancora posto a fuoco il problema del rapporto natura-grazia. Secondo la tradizione patristica anche Tommaso partiva dal dato di fede e ragionava filosoficamente nell’ambito teologico. Facciamo nostre le osservazioni di A. Blanco: «L’Aquinate, anche quando lavora da filosofo, è sempre intento allo scopo teologico, né lascia mai cadere la fede; dunque, la sua dottrina in questo punto va vista innanzitutto –come alcuni studiosi non hanno mancato di rilevare, e Colombo annota Bourassa e Gauthier5, in linea con le indicazioni bibliche e della tradizione cristiana, specialmente quella agostiniana. L’analisi dei testi tomisti al riguardo mostra che essi sono brevi, laconici, addirittura in contrasto alle volte tra di loro. Sorprende che il Dottore Angelico non si sia fermato a chiarirli: se fossero suoi originali, lo dovrebbe aver fatto, come di solito fa; e lo stesso se fossero dei punti controversi. Dunque è da ritenere che in questo punto san Tommaso si sia limitato –alle volte, anche quasi testualmente come si evince dal confronto con alcuni testi agostiniani, come ad es. del De civitate Dei, X 29, 1, a riportare concetti che lui riteneva specificamente appartenenti al messaggio cristiano e presenti nella tradizione dei Padri. Infatti, leggendo questi passi tommasiani, vengono in mente diverse espressioni degli antichi scrittori cristiani, come la formula anima naturaliter cristiana che Tertulliano ci ha lasciato nell’Apologeticum»6.
Non esistono dubbi che san Tommaso pensasse ad un fine ultimo connaturale all’uomo. Questo già dovrebbe risolvere il fulcro del nostro problema: se c’è un dinamismo ultimo naturale per lo spirito umano, questo deve essere necessario e assoluto, proprio come De Lubac pensava per il fine ultimo soprannaturale. Ma se c’è un fine ultimo naturale, necessario e assoluto, allora il fine ultimo soprannaturale non può possedere lo stesso tipo di necessità. I teologi tomisti hanno sempre sostenuto che il desiderium è “elicito”, intendendo con ciò dire che diventa necessario e assoluto solo dopo che in qualche modo (gratuito) siamo stati messi in comunicazione (rivelazione, vita di grazia…) con esso. Per noi la soluzione è diversa e non ha bisogno di ricorrere al desiderio elicito. Si tratta di un desiderio realmente connaturato che predispone alla grazia da parte del disegno di Dio, rientrando nel tema della potenza obbedienziale specifica. Il tutto va poi compaginato con la presenza del peccato originale che richiede una salvezza soprannaturale e anche sul fatto che Dio agisce sull’atto di essere per costituirci proiettati al fine ultimo soprannaturale in modo intrinseco attraverso una nuova creazione. Va da sé che una volta elevati e illuminati dai doni dello Spirito Santo, il cuore umano non potrà più prescindere dal desiderio di vedere Dio nell’intimità trinitaria. Qui siamo nella zona “elicita”, ma a noi interessa capire bene come si configura il desiderio naturale di vedere Dio; questo desiderio ha una sua apertura obbedienziale al fine ultimo soprannaturale, apertura che non è “elicita”, bensì naturale. Solo che non implica una presenza ontologica e necessaria del fine ultimo soprannaturale prima dell’elevazione. Cristiani non si nasce, ma si diventa, dobbiamo ripetere con Tertulliano.
Da notare che san Tommaso non aveva difficoltà a vedere il soprannaturale come gratuito, nella grazia, mentre per De Lubac e tanta teologia attuale, come vedremo, rimane un problema insoluto nonostante le spiegazioni apportate: il fine ultimo connaturale è sempre necessario e pertanto dovuto.
Abbiamo già citati alcuni assiomi metafisici sul fine ultimo: 1) è unico; 2) è necessario; 3) è ontologico; 4) è relazionale; 5) è insieme immanente e trascendente. Se san Tommaso nel testo citato della Summa arriva a dire che è unico, afferma qualcosa di lapalissiano. Se ci fossero due fini ultimi saremmo schizofrenici. Ma questo non contraddice l’esistenza di un fine ultimo naturale che visto dalla prospettiva eterna e soprannaturale di Dio è senz’altro penultimo, lasciando pertanto che il fine ultimo soprannaturale sia il vero fine ultimo dell’uomo nel disegno di Dio, ma preso in se stesso deve essere di natura ultima, altrimenti si elimina il secondo assioma: il fine ultimo è necessario. Su questo i soprannaturalisti si arrampicano sugli specchi per confondere la necessità e la libertà gratuita di Dio in modi del tutto insoddisfacenti. Essendo il fine ultimo ontologico, secondo il terzo assioma indicato, l’elevazione al fine ultimo soprannaturale non è un’aggiunta accidentale, ma vera nuova creazione, con rigenerazione dell’atto di essere. Il soprannaturale pertanto non rimane estrinseco nella persona, pur non essendo di per sé intrinseco alla natura umana. Diventa intrinseco con la nuova creazione operata dallo Spirito Santo col battesimo. Elevato con nuova creazione al fine ultimo soprannaturale è chiaro che questo è unico, anche se assume in sé il fine ultimo naturale, che persiste nella sua consistenza ontologica, pur essendo penultimo rispetto a quello. Se fosse penultimo in sé, ripetiamo, il fine ultimo soprannaturale sarebbe del tutto necessario, essendo il fine ultimo il fondamento più necessario di ogni ente, ma con ciò sarebbe connaturale alla natura creata e pertanto non ci sarebbe più una sovranatura o una nuova creazione che ci trasferisce nel Regno di Cristo. Non si potrebbe più parlare di grazia, come vedremo, di elevazione, di dono nuovo e inaudito. Non si potrebbe più distinguere il cristianesimo dalle altre religioni se non per un dato culturale e la rivelazione sarebbe pura gnosi e non agire creativo di Dio. Molti si innesteranno ontologicamente nel fine ultimo soprannaturale con una morte che corona una vita vissuta con buona volontà, tale da rendere possibile in quel momento il battesimo di desiderio. La buona volontà può essere valutata da Dio anche in tanti criminali, che hanno operato secondo la calamita del cuore che è il consenso esistenziale in una appartenenza primaria.
Con queste nostre precisazioni si capisce benissimo come Tommaso potesse dire che il fine ultimo soprannaturale è unico e allo stesso tempo indicare più volte in modo esplicito la presenza di un fine ultimo naturale. Per noi la constatazione della presenza del fine ultimo naturale in san Tommaso è sufficiente a porre fine a tutti gli equivoci sulla sua interpretazione del desiderium. Ma rimane il fatto che occorre andare oltre san Tommaso, nell’approfondimento teologico e metafisico; non basta porre fine agli equivoci su san Tommaso, occorre dar ragione oggi al problema di fondo. Tra l’altro san Tommaso ha molto da dire per queste risposte attuali. Per questo continuiamo l’esame della querelle sul desiderium.
Pur non sentendo il bisogno di quelle precisazioni che nel tempo sarebbero state molto utili, san Tommaso è ancora l’unico a distinguere senza separare, a mantenere un forte dinamismo naturale senza l’estrinsecismo formalista della tarda scolastica. Il desiderium ha una parte importantissima in questo dinamismo di natura e grazia, per una unità del disegno divino senza mortificazioni della consistenza naturale. Per questo san Tommaso può parlare di “desiderio naturale” pur riferendosi ad una conoscenza di Dio che non può essere presagita e desiderata dalla natura umana. Si tratta di un dinamismo spirituale, naturale, che porta l’uomo al desiderio della beatitudine somma e al desiderio della conoscenza della causa ultima così com’è (ecco la potenza del fine ultimo naturale). Su questo “desiderio” Dio innesta il dinamismo soprannaturale. Siamo in un altro ordine rispetto al “desiderio elicito” della scolastica formalista. Del resto il famoso capax gratiae è sempre stato inteso nel senso di una capacità passiva ma specifica all’innalzamento alla grazia. San Tommaso conosceva bene il capax gratiae e pertanto non aveva problemi al momento di enunziare il desiderium.
Non è soltanto elicito; ma neppure è connaturato intrinsecamente nel contenuto naturale! Intanto è facile convenire che non è cosciente il fatto che si desideri vedere Dio nella sua essenza soprannaturale. Pertanto non si può tradurre l’“inquietum est cor nostrum” di sant’Agostino in senso unicamente soprannaturale, perché c’è un desiderio cosciente di Dio in ogni uomo. Neppure può ridursi ad un mero conato attuabile solo dalla grazia. È un vero dinamismo naturale dello spirito verso Dio con una sua specifica capacità passiva di essere innalzato ad una finalità superiore. Sfido chiunque a dire che il desiderium sia cosciente di una apertura al soprannaturale (san Tommaso non lo pensa certamente). In definitiva sarebbe come aver sentore della Trinità senza Rivelazione! Pertanto è certo che è un dinamismo spirituale, naturale, capace però di accogliere il soprannaturale come la mano è capace di assecondare la carezza (che richiede un amore che non è della mano), mentre un chiodo non può assurgere a ciò. Pertanto non è fine ultimo soprannaturale già presente in noi. È un dinamismo dello spirito, “desiderio naturale”. Dinamismo naturale, presieduto dal fine ultimo naturale, capace però, secondo il disegno unico di Dio, di renderlo disponibile all’incontro sponsale con il fine ultimo soprannaturale. Del fine ultimo naturale si ha coscienza! Più o meno luminosa. Agisce sempre in modo decisivo su tutte le nostre azioni e pensieri. La voluntas ut natura è sul fine ultimo naturale e non sul fine soprannaturale. Per questo il peccato originale si può annidare nel cuore dell’uomo in quanto devia la voluntas ut natura dal fine ultimo naturale, ma sostituendolo con altri assoluti e con prestazioni idolatriche. È impressionante la forza della voluntas ut natura in tutti noi, e lo si vede da quanti sacrifici renda capaci tutti gli uomini per ottenere il dominio sull’immagine sociale che ciascuno ha in sostituzione dell’immagine divina.
Il fine ultimo naturale si rende cosciente nella dimensione religiosa dell’uomo; noi vediamo che tutti gli uomini in qualche modo cercano Dio, anche con errori e aberrazioni, anche gli atei dimostrano di cercare qualcosa di ultimo, di assoluto, e in questo senso hanno assolutizzato innumerevoli idee o realtà di per sé effimere. L’imperfezione della coscienza e della realizzazione ci convince della presenza del peccato, ma è anche dovuta al fatto che il fine ultimo trascende sempre il reale e pertanto non è mai perfettamente conoscibile su questa terra. La chiarezza del peccato ci dice che è inutile cercare la natura pura, visto che nessun uomo o popolo ha mai mostrato una vicinanza luminosa alla religiosità naturale perfetta, ma ci dice pure che tutti hanno sentore del fine ultimo naturale, mentre è lampante che nessuno ha il sentore del fine ultimo soprannaturale.
Non vi è la minima presenza nella coscienza dell’uomo del soprannaturale. Addirittura là dove già si è data una rivelazione soprannaturale, come tra gli Ebrei dell’Antico Testamento, non si riesce a presagire nulla di appena più alto del già rivelato. Gesù sarà totalmente sorprendente! La Trinità sarà totalmente sorprendente. E così la concezione verginale di Maria, l’eucarestia, la risurrezione o il dono pentecostale dello Spirito Santo. Per quanto si cerchi di eliminare l’idea di religione naturale (sostenuta dal fine ultimo naturale), questa è evidente in tutti gli uomini, anche se vissuta spesso in modo idolatrico, con idolatrie dal contenuto sacro o profano.
È vero però che al darsi della rivelazione si possono cogliere meravigliose premesse sapienziali proprio in connessione possibile con il soprannaturale, ma ben diverse dal soprannaturale. È in questo portato della sapienza dove si colloca il desiderium.
d) Tutto il problema può avere una soluzione in un concetto approfondito di potentia oboedentialis, termine sempre usato da chi ha difeso la separazione del doppio ordine e avversato dai soprannaturalisti. Il problema sarà studiato meglio più avanti, ma in questo quadro si può già anticipare che se è vero che per san Tommaso la potenza obbedienziale era citata a proposito dei miracoli o dell’assoluto potere di Dio di fare di ogni creatura ciò che vuole, senza bisogno di individuare nessuna predisposizione ad un dono più alto, è pur vero che il suo sistema metafisico, i suoi gradi di partecipazione all’essere, permettono un approfondimento nel senso di ciò che ormai è invocato da alcuni autori ai quali ci uniamo a favore di una potenza obbedienziale specifica. Maria non aveva una potenza naturale alla maternità divina (spero che nessuno possa contestare questa affermazione) bensì una potenza obbedienziale specifica, in quando donna. San Giuseppe non l’aveva! Ma su questo torneremo.
e) San Tommaso con semplicità, secondo il suo stile, annota qualcosa che in realtà è molto profondo, e che bisogna capire per come lui lo dice. Studiando bene i capitoli della Summa contra Gentiles, il lungo ragionamento del santo si snoda a partire dal fatto che tutti gli enti hanno un fine ultimo naturale, che è Dio e la sua gloria. Però, non essendo di natura intellettuale, non ne hanno consapevolezza. Le nature intellettuali, invece, tendono pure loro a Dio come fine ultimo naturale, mosse in questo dal desiderio della felicità. Per una creatura intellettuale la piena felicità può consistere solo -san Tommaso ci arriva dopo minuziosi passaggi- nel conoscere Dio nella sua essenza. Ma bisogna intendere bene. Quel “solo” presuppone che lo spirito umano non può accontentarsi di una felicita inferiore e pertanto se c’è per lui la possibilità della beatitudine soprannaturale (ma questo lo sa solo per fede!), allora è questa la vera meta del suo anelito. E così per la conoscenza della causa ultima in se stessa. Innanzitutto ciò è un portato della natura. Tra l’altro san Tommaso usa qui argomenti di pura ragione. Parte sempre dal fatto che l’intelletto umano cerca di conoscere le cause ultime, in se stesse.
È come se un ragazzo non avesse mai conosciuto i sui genitori e giunto all’adolescenza non possa più darsi pace finché non li ritrovi. E al ritrovarli scopra che sono il re e la regina e che lui era stato rapito da infante; erediterà il regno. Nella sua ricerca è implicito che voglia conoscerli “sicuti sunt”, proprio loro, comunque sono. E scoprirà che sono il re e la regina, ma non perché la ricerca “sicuti sunt” implica che siano ben più di quello che lui poteva sognare. Il “sicuti est” vale anche per un musulmano: è evidente che tutti gli islamici desiderano conoscere Allah “sicuti est”, anche se molti penseranno che tale desiderio sia irrealizzabile7. Ma in questo desiderio islamico di soprannaturale non c’è proprio nulla! anche se Maometto conosceva in parte la rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento. Basandosi sulla natura umana che cerca la felicità massima, Dio può pensare dalla sua eternità di offrigli la sua vita intima in comunione nuziale, come dono gratuito posto nel cuore del fine ultimo desiderato “naturalmente” dall’uomo. Ecco perché si può parlare di “desiderio naturale” pur essendo la destinazione soprannaturale un dono di grazia.
f) Qui si può riprendere quanto già indicato nell’Introduzione: sembra proprio che san Tommaso, che non prescinde mai dal fine ultimo naturale, non gli dia, però, molta importanza tematica. Dovuto all’essere frate in quell’epoca, dicevamo sopra. Certamente non ha potuto affrontare con la profondità oggi richiesta dal dibattito culturale, tutta la tematica della religione naturale, della libertà, del lavoro, della festa, della famiglia, della politica, ecc. Aveva, unico tra tutti, le premesse teoriche per poterlo fare. La sua grandezza viene proprio dall’equilibrio e dalla profondità del rapporto tra fede e ragione. L’atto di essere gli dava un fondamento ultimo capace di unire in alto, senza confondere e senza appiattire nella distinzione formalistica i termini non omogenei. Ma non c’era richiesta di tematizzazione della religiosità naturale dell’uomo e neppure di sostenere una sana secolarità o una sana laicità. Oggi tale problematica si rivela di portata esplosiva, eppure per i cattolici, dopo il sussulto mariteniano, sono tornati a snobbarlo. Partiamo troppo dalle nostre posizioni di “chiesa”. San Tommaso di fatto ricorreva un po’ al “pendolo”. Il suo grande equilibrio lo portava alla sintesi superiore, anche se sul fine ultimo si è fermato al dato di fede senza approfondire fino in fondo il problema. Ma il suo equilibrio e la ricchezza metafisica oltre che biblica gli hanno permesso di non cadere nei due errori sempre in agguato: il naturalismo e il fideismo. La sintesi tomista richiede un ulteriore chiarimento, ma è sintesi; non è dualismo di piani, estrinsecismo del soprannaturale. Allo stesso tempo non cade nel sintetismo e nell’intrinsecismo proprio dei soprannaturalisti.
Certamente una certa visione di Dio naturale san Tommaso la sostiene, quando dice, nel testo sopra riportato: «tale fine (naturale) consiste in una certa contemplazione delle realtà divine qual è possibile all’uomo secondo le facoltà della sua natura»; e non si può dire che ciò riguarda unicamente la nostra vita sulla terra. Questo è un punto determinante. Se fosse solo sulla terra che lo spirito creato cerca Dio, ma per realizzarsi solo nell’incontro soprannaturale in cielo, allora saremmo ancora nella “natura-conato”, nella natura come pura potenzialità il cui atto ultimo è la grazia, saremmo nella “natura-non natura”, puro strumento, puro fenomeno. Del resto quello spirito che cerca Dio è immortale, fatto per l’eternità. Ma più ancora è l’atto di essere che partecipa necessariamente dell’Essere. Tale partecipazione, che implica un fine ultimo naturale, sussiste in cielo pur nel connubio perfetto con il fine ultimo soprannaturale. È questa sussistenza eterna che fa parlare di fine ultimo naturale e non solo di fine transeunte, terreno, o altro. Pertanto è chiaro che la spinta interna all’uomo a conoscere la causa ultima nella sua essenza ha una prima approssimazione di tipo naturale; ugualmente la spinta dello spirito umano alla massima felicità8. Questo è molto importante, perché viene ad essere la dimensione naturale che Dio prevede in ordine all’innalzamento soprannaturale; dimensione che rimane sussistente anche nell’elevazione e perfino nell’eternità! Viene ad essere quella particolare potentia oboedentialis che permette un’articolazione non del tutto estrinseca tra naturale e soprannaturale, senza però rendere il soprannaturale intrinseco al naturale. L’intrinsecità è da cogliere nell’atto di essere “ricreato”. Il desiderium viene ad indicare la predisposizione della natura umana ed essere elevata alla filiazione divina, ma con un intervento di nuova creazione, libera e gratuita, operata dallo Spirito Santo meritatoci da Cristo.
Rimane il fatto molto importante che per san Tommaso c’è un desiderio naturale che permette a Dio di vederci nel fine ultimo soprannaturale. Questo permette di intravedere il sintetismo a partire dal disegno di Dio, senza però mortificare l’articolazione natura-grazia nella storia dell’uomo9.
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Precisazioni
Per pensatori abituati a partire dalle essenze, dai quadri concettuali, l’inganno è stato quello di vedere separatamente i vari ingredienti: una natura pura, il peccato, la redenzione con elevazione soprannaturale. Partendo dal reale e dalla storia vera dell’uomo, l’aspetto sintetico acquista una maggior importanza. Più ancora se si vuol pensare il destino dell’uomo nel disegno di Dio. Inciarte studia nei testi di De Lubac la tendenza a spostare il problema verso l’escatologia, per trovare un appoggio alle sue tesi rispetto alle forti critiche che riceveva10. Abbiamo anche noi detto a chiare lettere che a partire dalla visione divina, eterna, il fine naturale non è ultimo ma penultimo. De Lubac cita Taulero che difendeva Master Eckhart: «Ad alcune parole irragionevoli del suo maestro Eckhart, ha detto: “un maestro amabile vi istruisce e vi parla di ciò che rimane; lui vi parlò di eternità e voi lo percepiste nel tempo”». Proprio questo vale anche per De Lubac. Per lui la storicità terrena è effimera, ed è questa realtà effimera che studia la filosofia. La teologia studia l’eterno. Se De Lubac parla dell’eternità (e chiaramente la intende solo per il soprannaturale, mentre per noi il fine ultimo naturale sussisterà anche in cielo, e con esso un fattore storico personale e sociale), se interessa praticamente solo il soprannaturale, perché il resto sembra contingente e perituro, si finisce per trascurare la storia umana, la filosofia della storia, la cultura, le responsabilità sociali non prettamente apostoliche ed evangelizzatrici. E proprio così si finisce per svuotarle della carità, del loro possibile orientamento globale verso Dio, della responsabilità di portare tutti in cielo; cioè si svuota il mondo proprio della grazia, e non solo della trascendenza naturale. Che poi De Lubac fosse squisitamente sensibile alla cultura vuol dire poco; anche Cartesio era credente, ma le sue premesse filosofiche portavano all’ateismo. Per noi l’articolazione “fine ultimo naturale-fine ultimo soprannaturale” rimane anche in cielo, pur nella sinteticità piena, altrimenti non si potrebbe parlare di un vero fine ultimo naturale. Gesù ha la sua umanità in cielo, la sua storia, la sua Croce, la Madre, i fratelli… La sinteticità divina non è la nostra, neppure in cielo. Il fine ultimo naturale è assunto e non eliminato, anche in cielo.
Il buon metafisico sa che si parte dall’ente e non dalle componenti metafisiche. Ciò che attualizza il reale è più importante delle sue parti. Il naturale deve vedersi in quanto inserito nel fine ultimo soprannaturale. In questo senso san Tommaso sapeva vedere come il dinamismo dello spirito umano proiettato alla conoscenza delle cause ultime e alla felicità piena era un portato assumibile da Dio per il disegno soprannaturale. Ma neppure si può partire e rimanere nell’eternità, scavalcando il presente storico e il suo dinamismo temporale. Nel presente la sinteticità celeste mantiene le sue chiare articolazioni, specie di natura-peccato-grazia.
Nell’esempio fatto di un ragazzo che desidera conoscere i suoi genitori è possibile capire che è ben diverso il desiderio naturale di conoscere sua madre dallo scoprire che sua madre è la regina e lui il principe ereditario. San Tommaso non giunge a distinguere così chiaramente, ma è tutto il contesto e l’insieme della sua opera che porta a questa soluzione. La sponsalità, da noi invocata per il soprannaturale, basata sull’atto di essere e non su di una impossibile unione delle essenze, dà una luce splendida a tutto il problema. San Tommaso, che ha condotto un ragionamento puramente filosofico, passa alla Rivelazione, dato che parla dell’uomo realmente esistente destinato al fine ultimo soprannaturale, dove il conoscere Dio nella sua sostanza diventa conoscere Dio nell’intimità trinitaria. Ma non afferma da nessuna parte che il desiderio naturale di vedere Dio nella sua essenza sia già soprannaturale. Pensa ad un dinamismo verso la trascendenza che lo porta alla felicità massima, qualunque essa sia; e su tale dinamismo Dio può rivelarsi ben superiore alle premesse dello spirito creato. Pensa alla necessità della ragione di conoscere le cause ultime. Tale dinamismo lo abilita, ma con potenza obbedienziale, ad accogliere il dono della visione beatifica. L’uomo, in quanto votato alla suprema felicità, può ricevere una felicità superiore non esigibile come fine ultimo dalla natura umana, neppure desiderabile con le proprie potenze naturali, ma elevando il dinamismo dell’uomo a ricevere questo dono. In questo senso l’uomo è capax gratiae. Del resto non si possono dimenticare i testi chiarissimi di san Paolo: “A colui che in tutto ha potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3, 20); qui san Paolo indica un “molto di più” che solo la potenza creatrice dello Spirito, e cioè l’azione soprannaturale quoad substantiam, ontologica, può apportare all’uomo. San Tommaso riprende più volte il testo della Lettera ai Corinzi dove, riportando l’insegnamento dei profeti, dice: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2, 9-10). Qui si parla proprio dell’impossibilità del dinamismo dello spirito creato ad aspirare a cose che solo lo Spirito donatoci da Cristo può operare in noi. Si vede perfettamente il cristocentrismo totale: tutto era già preparato da Dio, in Cristo, per l’uomo, anche la creazione stessa dell’uomo, la sua umanità, ma per un ulteriore dono, in Cristo. Tale ulteriore dono, e pertanto l’entrare nel dinamismo reale del soprannaturale, fu operato fin dal principio nella giustizia originaria, ma noi lo conosciamo come opera pentecostale dello Spirito Santo, dopo la morte-risurrezione di Cristo. Certamente ci sono fasi intermedie: un buon israelita era già proiettato coscientemente verso un incontro con Dio misericordioso, secondo un desiderio inculcato in lui dalla Rivelazione e dallo Spirito Santo; ma in modo relazionale più che ontologico; più con lo spirito che con l’essere che attendeva ancora un innalzamento alla filiazione divina. Ciò non basta per affermare che tutti gli uomini, da sempre, hanno avuto unicamente e solo un fine ultimo soprannaturale, tale da sostanziare il dinamismo spirituale, l’anima immortale, l’atto di essere partecipato per creazione dall’Essere divino. Per De Lubac, a ragione, il fine ultimo è necessario alla definizione della natura umana; solo che, non vedendo l’articolazione ultima naturale, è costretto a dire che il desiderio di vedere Dio è già soprannaturale ed è assoluto (come lo deve essere il fine ultimo), mentre per noi è potenza obbedienziale specifica, tale da permettere a Dio di vederci nel fine ultimo soprannaturale.
L’uomo non sa che l’infinito, l’eternità, è comunione di persone. Ma Dio lo crea con questo fine, lo destina a questa visione beatifica, volendo una natura spirituale non solo capace ma desiderosa al massimo della felicità. L’immagine divina è proprio la capacità di amare e di esserne coscienti. Tutto ciò appare dal contesto in cui san Tommaso parla del desiderio naturale di vedere Dio. Non parla di una esigenza connaturata dell’uomo alla visione beatifica, ma di una ordinabilità, di una possibilità che Dio ha di vederlo nel fine ultimo soprannaturale attraverso il desiderio naturale dell’uomo alla felicità e alla conoscenza della causa ultima. Qua e là qualche testo potrebbe sembrare utilizzabile per la tesi di De Lubac, ma i testi espliciti indicano chiaramente che la capacità della visione beatifica è nell’uomo un dinamismo innalzabile, che noi possiamo chiamare potenza obbedienziale specifica. Si può vedere IV Sent., 17, 1, 5, sol. I; I, II, q. 113, a. 10; III, q. 9, a. 2, ad 3. Testi come De Ver., q. 8, a. 1; II, II, q. 2, a. 3; o in IV Sent., d. 49, q. 2, a. 1 chiaramente indicano qualcosa in più della semplice possibilità della visione beatifica, ma è chiaro che suppongono il dato rivelato, cioè non partono da premesse puramente razionali.
Si sa delle discussioni che questo tema ha suscitato. Per molti è un’idea nata dopo san Tommaso, mentre ci sono testi di san Tommaso chiari11, anche se è vero, come già abbiamo detto, che san Tommaso la citava nel suo aspetto estremo di indifferenza nella mani del Creatore.
Per il tema del rapporto tra natura e grazia la soluzione della potenza obbedienziale fu usata parecchio. Se il soprannaturale è estrinseco all’uomo, se l’uomo è stato creato con un suo fine ultimo naturale, il soprannaturale diventa un’aggiunta. Allora la potenza obbedienziale diventa proprio l’unico modo di collegare il naturale con il soprannaturale. A livello essenzialista non c’è bisogno di approfondire il concetto e le possibilità diverse della potenza obbedienziale, perché basta quella di pura indifferenza rispetto al potere divino, che può trarre dai sassi figli di Abramo. Si capisce come sia stata rifiutata da tutti i teologi antimetafisici, da coloro che hanno potuto credere di vedere il soprannaturale come intrinseco all’uomo, come unico fine ultimo, pensando di salvare ugualmente la gratuità del dono divino.
Rimane però il fatto di come il naturale possa essere elevato al soprannaturale, innestando l’uomo nel suo vero fine ultimo per come è stato da sempre pensato da Dio. Il segreto di tutto rimane la perfettibilità dell’atto di essere, nel quale, una volta ricreato (nuova creazione), può attuare in modo sponsale tutte le perfezioni naturali e soprannaturali.
Noi vediamo che la sponsalità, già a livello naturale, ha vari gradi. C’è una sponsalità animale, molto chiara, in quanto gli animali non vivono mai isolati. Questo sponsalità diventa una specie di premessa analogica attraverso il corpo umano per quello che diventerà la sponsalità dell’uomo nella tribù, nella comunità vitale, nel villaggio, ma soprattutto nella famiglia e nella comunità confessionale. Tra sponsalità del branco animale e sponsalità umana c’è un salto di qualità totale. C’è il salto dello spirito. C’è il salto dell’amore che richiede libertà e responsabilità, dimensione morale, contemplativa, mistica. La differenza tra l’animale e l’uomo non è solo di grado, ma sostanziale. Eppure c’è una similitudine che non si trova minimamente tra le pietre. Gli animali hanno un istinto sessuale, che già indica la sponsalità ed hanno di più dell’istinto sessuale, come si può facilmente notare nella sponsalità di branco. Una leonessa è pronta a dar la vita per i suoi piccoli. A livello di emotività primitivissima si può dire che anche gli uomini hanno istinti molto simili agli animali, eppure non si può mai dire che la sponsalità umana sia un semplice sviluppo omogeneo della sponsalità animale. C’è il salto dello spirito. C’è il salto della persona. C’è il salto della società. La famiglia umana ha contenuti e soprattutto prospettive e finalità che richiedono la libertà umana e pertanto la responsabilità; richiedono la progettualità, il lavoro, la lealtà, la giustizia, ecc. L’animale non cambia mai, l’uomo dà luogo a migliaia di risultati diversi. Per noi la sponsalità istintiva degli animali, presente nel corpo umano può dare una pallida idea di come ci possa essere una potenza obbedienziale specifica nel disegno di Dio che permette al corpo l’assunzione dello spirito (non certo con un prima o un dopo, ma nell’attualità nuova dell’essere). Non si può negare che gli animali, a differenza delle pietre, hanno un istinto di branco, hanno un dinamismo fisico che li lega secondo premesse di quella che sarà la sponsalità umana. È solo un esempio, ma ci aiuta a capire che ci può essere una potenza obbedienziale specifica, ben diversa da quella di pura indifferenza. Non si può certo dire che ci sia una esigibilità dello spirito da parte della sponsalità animale, anche se questa ha qualche barlume analogico con la vita dell’uomo in società. Sappiamo comunque che Dio non ha mai previsto un innalzamento dell’animale alla condizione umana, non essendoci somiglianza sufficiente. Adamo non trovò tra gli animali uno simile a lui, mentre l’uomo era simile a Dio, capax gratiae. L’animale non è “capax humanitatis”. Quella similitudine della sessualità e del branco è diversa dall’indifferenza delle pietre, ma non raggiunge la specificità della potenza obbedienziale verso lo spirito umano che invece c’è nell’uomo verso la grazia. Già abbiamo individuato tre livelli di potenza obbedienziale. Quella dell’uomo è veramente unica e importantissima. Su di essa si basa l’unico disegno divino, con perfetta unità e ricchezza di articolazioni, naturale e soprannaturale.
Nell’uomo, lo spirito creato è aperto alla trascendenza in modo cosciente e libero. Ciò lo rende capace di essere visto da Dio nella sponsalità soprannaturale. Il soprannaturale non è allora un regalo arbitrario di Dio, come alcuni protestanti hanno sostenuto. Neppure è una sovrapposizione volontaristica di Dio, ma il vero fine ultimo in cui Dio ci ha creati, pur articolando la creazione con un dono di naturale apertura al trascendente divino, che è il fine ultimo naturale, capace di sostenere una compiutezza entitativa e una libera autonomia, come premessa necessaria per accogliere una sponsalità gratuita.
San Tommaso si richiama continuamente alla capacità di autotrascendimento della ragione, all’apertura all’infinito, al desiderio assoluto di conoscere la causa ultima (questo è desiderio assoluto, ma non quello di vedere la causa ultima soprannaturale, cioè nella sua attualità trinitaria), al desiderio assoluto della maggior felicità. È la spiritualità dell’uomo che è capace di ricevere anche forme superiori e perciò di essere elevata al soprannaturale12. Si tratta comunque di una possibilità propria della definizione ontologica della persona e non soltanto della potenza obbedienziale puramente passiva13. Si uniscono così il carattere trascendente del soprannaturale con la positività del desiderium, escludendo così che sia puramente elicito, condizionato cioè a qualche notizia soprannaturale. Dio si avvale di articolazioni in cui far valere i valori stupendi dell’umanità e soprattutto la libertà, la capacità di amare, in cui si può innestare il suo dono sponsale soprannaturale14. Si tratta di pensare a quella regina del nostro esempio, per osservare che non è il suo esser donna che la fa regina. Ma il suo essere donna può essere assunto dal principe proprio per sposarla e offrirgli i doni della regalità che la donna non poteva neppure desiderare o pensare per sé. Tuttavia il prima e il poi dell’elevazione soprannaturale non sottostà alle nostre leggi del tempo; si può pensare il tutto nell’attualità del nostro essere15.
C’è una tematica antica nella teologia che dice che l’uomo è capax gratiae, capace della grazia. Ma nessuno ha mai pensato che si tratti di una “capacità” in sé di ricevere la grazia. Il senso è chiaro: l’uomo è capax gratiae, l’animale e le piante no. È esattamente il tema della potenza obbedienziale specifica!
Abbiamo già accennato a Maria Santissima. Si può riconoscere facilmente in lei una potenza obbedienziale alla maternità divina. Nessuno può pensare che una donna possa attuare con le sue forze la maternità divina. Sappiamo però che Dio ha potuto pensare da sempre ad una creatura umana per farla madre del figlio, madre di Dio. In questo senso Maria era capax maternitatis divinae. Mentre san Giuseppe, suo sposo, essendo uomo, non poteva certo diventare madre di Dio. Non era capax maternitatis divinae. Rimanendo nell’esempio di Maria, si può essere certi che in Maria Dio si è basato su di una potenza obbedienziale. Per lo meno nel caso della Madre di Dio non si può assolutamente negare il fatto della potenza obbedienziale. Nessuna creatura ha un dinamismo in sé per diventare madre di Dio. I doni particolari di Maria non le sono dati per allontanarla da noi, ma per farla Madre nostra. Se in lei c’è chiaramente una potenza obbedienziale specifica possiamo facilmente dedurre che anche per noi la via seguita da Dio sia di questo genere. Da notare che Dio può contare su di una disposizione obbedienziale in Maria non solo perché è donna e può generare, ma anche perché ogni madre inserra il desiderio naturale di avere il miglior figlio, di avere il meglio per il proprio figlio. Su questo dinamismo Dio può beneficiare Maria di un dono inaudito. Si può anche capire che per Maria vale certamente la distinzione tra l’ordo intentionis e l’ordo executionis: Dio da sempre la vedeva come madre del Figlio, ma ciò si è dato solo dopo l’Annuncizione.
Anche per l’apertura dello spirito umano all’infinito la potenza obbedienziale ha una sua consistenza notevole, una sua dignità; non è solo non ripugnanza, ma attitudine specifica; qualcosa che non esige il compimento, ma è prevedibile dall’alto. La terra non esige il seme, ma chi ha pensato il seme ha pensato anche al solco. Ugualmente il bisogno di amore, proprio della profondità del cuore umano, è un’ottima base, direi un’ottima articolazione, agli occhi di Dio per attualizzare tutto il suo disegno. È come una grammatica presente nella natura ma capace di assimilare il linguaggio soprannaturale.
In questo panorama il desiderio naturale di vedere Dio nella sua essenza va molto al di là di un “desiderio elicito”. Diventa l’articolazione voluta da Dio per un disegno completo senza imporsi all’uomo, per una sponsalità trinitaria meritata anche dall’uomo, nella libertà, pur nel bisogno assoluto e gratuito del dono soprannaturale16. È qui dove bisogna trovare la soluzione per l’apertura e anche la predestinazione dell’uomo al soprannaturale. Se Maria, parlando in astratto, avesse detto di no, sarebbe rimasta frustrata in qualcosa di meraviglioso pensato dall’eternità per lei. Così l’uomo che non si realizza in Cristo perde il meglio nella storia e rischia qualcosa per l’aldilà, ma non si può dire che perda ogni identità spirituale e cioè ultima e protesa all’eternità. Il peccato pone ulteriori complicazioni, devia proprio il desiderium dal suo traguardo ultimo (il peccato originale forza la voluntas ut natura a incurvarsi verso uno pseudo fine ultimo, rendendo necessaria la redenzione anche per riportare il cuore a Dio) ma non vanifica la natura umana.
Se si guarda bene dentro il cuore dell’uomo, si troverà certamente un desiderio assoluto di amore, un desiderio di Dio, ma non di vedere Dio nella sua intimità trinitaria, tanto è vero che di fatto si vede questo desiderio nella sua forma capovolta, incurvata, propria della concupiscenza. Si nota perfettamente che l’uomo è fatto per Dio, ma in controluce: nel vedere la carica di assoluto con cui cerca il riconoscimento di altri, nell’ambito di legami forti, del tutto simili a quelli propri di una chiesa. Per questo ho studiato nel libro Liberare l’Amore l’esistenza di una “chiesa segreta” per tutti17. È talmente forte il bisogno di “amore” per il cuore umano, di riconoscimento significativo in un gruppo primario, che si preferisce morire piuttosto che perderlo. L’istinto di conservazione è la somma espressione della corporeità fisica dell’uomo; un legame più forte dell’istinto di conservazione diventa chiara espressione della sua spiritualità e religiosità. Nessuno può vivere senza spartire la sorte con altri in un gruppo primario. E si capisce che solo la salvezza di Cristo può recuperare il cuore egoistico dell’uomo, ma lo si capisce solo perché ci si è rivelata e corrisponde perfettamente ai nostri bisogni, a livello insperato per il cuore umano. Tanto è vero che anche in ambienti cattolici la maggior parte non se ne cura; basti osservare cosa succede quando si toccano le sicurezze umane capaci di darci immagine davanti agli altri per rendersi conto di quanto poco valga Gesù Cristo come salvatore per tanti cristiani tiepidi. Eppure anche i più tiepidi sono pronti a fare qualsiasi sacrificio per conservare il potere significativo nella propria cerchia.
Ciò che balza agli occhi del saggio è che l’uomo cerca sempre la felicità, in un legame significativo carico di assoluto. Tale legame, che per definizione dovrebbe essere innanzitutto con Dio, visto che si carica di assoluto, non è mai con Dio, se non nei santi. E ciò anche in presenza di una pratica religiosa. Si ha talmente bisogno di un clan significativo che non deve stupire se questo bisogno viene ricercato nella pratica religiosa, per i legami solidaristici che il gruppo religioso può avere. Visto che oggi sorgono agglomerati e consorterie significative di tutti i generi, con contenuti spesso aberranti (qualunque idea o progetto comune può essere sostenuta come verità assoluta se serve per avere considerazione nell’ambito di un gruppo primario), un consenso esistenziale cercato nella tradizione religiosa è sempre un fatto positivo. Tuttavia non è ancora salvifico; non è ancora portatore di Cristo, morto e risorto per ciascuno di noi, con una presenza di amore e di comunione vitale che dovrebbe liberare e salvare il cuore da ogni schiavitù, soprattutto dal dipendere dal successo e dal giudizio di altri. Ma per tutto ciò rimandiamo ancora al libro Liberare l’Amore.
A scanso di equivoco il problema del consenso non è da ritenersi un portato del peccato originale; riguarda la natura dell’uomo, persona in comunione. Il peccato si annida proprio sul consenso (l’albero della vita), prima che sulla conoscenza del bene e del male (l’altro albero della Genesi), e pertanto crea, attraverso il condizionamento naturale dell’amore, un capovolgimento del cuore, che si curva su se stesso, ma sempre attraverso gli altri, ma non anelando a Dio; l’anelito a Dio rimane come natura dello spirito umano, che il peccato inganna ma non toglie. Tutto ciò ci dice anche che la salvezza ha una componente comunitaria fondamentale. In questo senso ci si può domandare sul ruolo delle religioni non cristiane nella salvezza, in quanto sono comunità molto forti, centrate in Dio, ma con presenza massiccia dell’idolatria. La salvezza non è individuale. Tuttavia le religioni non possono uscire dall’idolatria; neppure Buddha, che ha fatto dello spegnimento dei desideri idolatrici tutta la sua sapienza: perché trova pace nel potere che dà la sua sapienza presso gli altri uomini! Tutti si chiudono nella loro religione, solo Cristo, donandoci lo Spirito Santo può salvare: «nessuno può dire “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor, 12, 3). Di fatto anche i cristiani, anche i cattolici, vivendo più di religione che di fede, rimangono avvinghiati nelle chiusure dell’idolatria.
È chiaro allora che ogni uomo alberga, nel più intimo del suo cuore, il desiderio di vedere Dio, come fonte di significato, come riconoscimento assoluto. Ma ciò è ancora a livello naturale. Dio ci ha creati a sua immagine per poterci proporre l’incontro intimo, per spartire tutta la sua sorte con noi, nella proposta sponsale soprannaturale. Ma questa proposta non è connaturata a noi, altrimenti se ne vedrebbe la pur minima traccia. Invece si nota una presenza massiccia della sponsalità naturale: dell’esigenza di ogni persona a vivere di un amore assoluto, che nella realtà di peccato dell’uomo si accentra tutta sul consenso di “persone essenziali” con cui si cerca di spartire la sorte. Solo nei santi si nota il desiderio di vedere Gesù, di correre al suo incontro, anche a costo di perdere tutto e la vita stessa. Ma ciò è chiaramente dovuto alla vita di fede, al dono sacramentale, alla Parola di Dio rivelata, alla realtà di una comunità viva di fede. E non bisogna dimenticare quanto c’è scritto in Liberare l’Amore sulla conoscenza idolatrica di Cristo, studiata in san Paolo, là dove dice: “E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2 Cor 5, 16)18. Non è pessimismo il nostro. Solo scoprendo la radice del nostro egoismo si è aiutati ad essere umili e a desiderare fortemente l’azione dello Spirito Santo che può convertirci, pur ringraziando per la positività di ogni cammino cattolico. Tutti i gruppi sono autoreferenziali, ma le realtà solidaristiche cattoliche hanno una possibilità sconosciuta a tutte le altre agglomerazioni, anche religiose. In ogni realtà cattolica si è spinti verso Cristo, verso l’Eucarestia, verso Maria, verso il Papa, verso il Vangelo, tutte realtà meravigliose che non sono di quel gruppo o di quella chiesa locale, ma di tutta la Chiesa. In ogni realtà cattolica c’è il principio del superamento dell’idolatria, sia oggettivo nel dono di grazia, sia soggettivo nella possibilità di conoscere e di desiderare la conversione. Un eretico fonda una sua setta pensando di essere l’unico a leggere bene il Vangelo; un santo cattolico, fondatore di un nuovo cammino, non è neppure sfiorato da questa idea. Tuttavia il nostro cuore è sempre egoista, fino all’idolatria. Solo là dove lascia aperti spiragli per l’azione potente di Dio, la sopranatura opera la conversione e vince il peccato; altrimenti l’idolatria può impadronirsi di tutti i contenuti concreti della vita ecclesiale, e renderli inautentici, bisognosi di salvezza19.
19 Al dire che nell’idolatria non c’è salvezza, non intendo dire che la non salvezza sia eterna. Altrimenti non se ne salverebbe neanche uno su mille, come diceva Lutero. In realtà in cielo ci va l’amore autentico, salvato; ma c’è anche il purgatorio -e bisogna crederci pienamente- per purificare i cuori idolatrici. Il buon ladrone è andato in cielo subito non certo perché ha chiesto di essere ricordato da Cristo nel suo regno: per questo sarebbe, forse, in purgatorio ancora oggi. Gli sarebbe valso come perdono dei peccati, ma non certo come cielo. È andato in cielo perché ha gridato “non ha fatto nulla di male” (Lc 23, 41). Per un attimo ha operato il dono di sé a Cristo: si è messo nei panni di Gesù, dimenticandosi della propria condizione di dolore (cosa molto difficile in quella situazione). Il suo dolore è diventato kenosis di amore. L’ultimo minuto della sua vita è stato amore di benevolenza, cioè un collocarsi sinceramente nel cuore innocente di Gesù, cioè in cielo! Naturalmente è intervenuto lo Spirito Santo a dargli occhi per vedere l’innocenza di Gesù. In quel momento è entrata la salvezza nel suo cuore. Quando chiede a Gesù di ricordarlo nel suo regno è come se Gesù gli dicesse: “non c’è bisogno; ti sei già messo tu nel mio regno, nel mio cuore: ti ho sentito alleato: sei l’unico che ha proclamato la mia innocenza oggi”.